Articolo apparso sul n. 275 di Cristianità
Marco Tangheroni,
Commercio e navigazione nel Medioevo,
Laterza, Roma-Bari 1996, pp. XII+ 500, £. 70.000
Marco Tangheroni nasce a Pisa il 24 febbraio 1946; nella stessa città studia e si laurea presso l’università di Cagliari con una tesi su Gli Alliata. Una famiglia pisana del Medioevo, relatore il professor Alberto Boscolo (1920-1988). Ha insegnato nelle università di Cagliari, di Barcellona, di Sassari e di Pisa, dove è attualmente professore ordinario di Storia Medievale e direttore del Dipartimento di Medievistica. Nei suoi studi ha toccato i più diversi aspetti della realtà medievale, da quelli economici a quelli religiosi, indirizzandosi soprattutto all’area mediterranea. È autore di diversi volumi sulla storia di Pisa, della Toscana e della Sardegna — per esempio, Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel trecento, Pacini, Pisa 1973; La città dell’argento. Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo, Liguori, Napoli 1985; e Medioevo Tirrenico, Pacini, Pisa 1992 —, nonché di oltre un centinaio di articoli scientifici su riviste italiane e straniere. Ha collaborato al quotidiano Il Messaggero Veneto e collabora ai quotidiani Avvenire, Secolo d’Italia, il Giornale e L’Unione Sarda, nonché alle riviste Cristianità, Jesus, Storia e Dossier e Medioevo. Militante in Alleanza Cattolica dal 1970, ha svolto e svolge un’intensa attività di conferenziere sia su temi specificamente storici, sia su temi connessi alla dottrina sociale della Chiesa e all’attualità politica.
Commercio e navigazione nel Medioevo costituisce autorevole punto della situazione degli studi sull’argomento.
Nella Premessa (pp. IX-XII) Tangheroni delinea in breve la genesi dell’opera e chiarisce di aver voluto offrire ai lettori un testo con i limiti e i pregi della sintesi, ma al tempo stesso in grado di presentare un quadro il più possibile articolato dei temi trattati.
L’autore dedica il primo capitolo (pp. 3-39) all’analisi dello stato dei commerci e della navigazione nella tarda antichità; in esso si mette in evidenza come fra i secoli IV e V la navigazione nel Mediterraneo non s’interrompesse, anche se la quantità delle merci scambiate era sensibilmente diminuita: si tratta di un’osservazione suggerita dalla riduzione del tonnellaggio medio delle navi e dai dati archeologici, relativi ai vari siti e agli oggetti ritrovati. In sostanza, a quest’epoca, il commercio mediterraneo non era cessato, ma era in chiaro declino; quindi non sarebbero state le invasioni arabe a segnarne la fine in modo improvviso.
Un duro colpo era stato assestato dalle invasioni dei germani, soprattutto per quanto riguarda il Mediterraneo occidentale; infatti le coste africane e spagnole, seppure in diversa misura, ne riportano gravi conseguenze. Quanto alla Gallia, se per Narbona si hanno chiari indizi di decadenza, Arles mantiene e anzi accresce la sua rilevanza.
Assai varia la situazione italiana: Roma, per esempio, era ancora il porto più importante del Tirreno, ma in stato di degrado, soprattutto in conseguenza della guerra greco-gotica; chiari segni di declino sono riscontrabili anche nelle aree di Napoli, della Sardegna e della Sicilia, anche se dalla seconda metà del secolo IV l’importanza di quest’ultima cresce grazie ai rifornimenti destinati a Roma. Se Pisa conserva limitate attività marinare, Ravenna, sede delle massime autorità bizantine in Italia e punto di forza della resistenza contro i longobardi, conosce in questi anni una grande fioritura. Diversa la sorte di città come Luni e Aquileia, che vanno incontro a una decadenza inarrestabile.
In merito alla situazione del Mediterraneo orientale, lo storico pisano sottolinea che la parte orientale dell’impero, la quale stava vivendo un processo di crescente grecizzazione, sente poco la crisi economica del secolo III, così che "[...] l’eclissi della vita urbana fu comparativamente assai minore in Oriente che in Occidente" (p. 20). La nuova capitale dell’impero, Costantinopoli, ha fin da subito una grande importanza: essa, posta sul Bosforo, era destinata a essere una città di mare. Pure Alessandria aveva un porto attivissimo, impegnato anche nell’esportazione del grano egiziano a Costantinopoli. Sebbene la politica economica bizantina non incoraggiasse particolarmente i commerci, all’epoca di Giustiniano la situazione dell’impero era florida.
Anche i rapporti commerciali fra Oriente e Occidente conservavano una certa vivacità e interessavano non soltanto beni di lusso ma anche spezie, il cui consumo era allora assai diffuso. Con tutto ciò la domanda da parte occidentale tendeva a essere ristretta e limitata, e nonostante la riconquista bizantina di Africa, Spagna sud-orientale e Italia abbia reso più facile la navigazione mediterranea, i suoi effetti non devono essere sopravvalutati. In Occidente il ruolo della moneta si stava riducendo al minimo.
Spostando lo sguardo dal Mediterraneo verso il Nord, Tangheroni descrive la situazione della Britannia, abbandonata dalle legioni romane all’inizio del secolo V e soggetta, già dagli ultimi decenni del IV, alle incursioni anglosassoni: si tratta del contesto in cui sarebbe sorto il mito arturiano. Le navi utilizzate dai sassoni usavano esclusivamente la propulsione a remi e sembra navigassero solo lungocosta; esse avevano ancora ben poco in comune con le navi vichinghe.
L’autore chiude il capitolo con una breve analisi dei rapporti commerciali con il lontano Oriente; sembra che i mercanti romani frequentassero diverse località dell’India sud-occidentale e Ceylon, dove arrivavano merci anche dalla Cina: "La continuità di questi traffici nel tardo impero è attestata da diversi indizi, anche numismatici. Per il VI secolo abbiamo l’opera, affascinante, dell’alessandrino Cosma, che, poi, ricevette il nome di Indicopleusta ("colui che ha navigato fino alle Indie")" (p. 39).
Nel secondo capitolo (pp. 41-72) lo storico pisano tratta principalmente dell’irruzione nella storia degli arabi, che segna nel Mediterraneo una svolta. Per avere una chiara percezione dei mutamenti avvenuti — spiega Tangheroni — basterebbe confrontare una carta relativa al 632, data della morte di Maometto, con una relativa al 655, data della morte di Othman, terzo califfo: in vent’anni erano cadute nelle mani degli arabi Palestina, Siria, Egitto e l’Armenia bizantina; l’impero persiano, poi, aveva cessato di esistere.
All’inizio del secolo VIII gli arabi s’impadroniscono di tutta l’Africa settentrionale e della Spagna visigotica. Nel 732 il franco Carlo Martello sconfigge i musulmani a Poitiers nel corso di una battaglia che avrebbe avuto una grande importanza nella tradizione storiografica latina, ma che con ogni probabilità ha un rilievo molto inferiore a quello della vittoriosa difesa di Costantinopoli nel 717: infatti, se la città imperiale fosse caduta — ipotesi che non pare troppo lontana in quella circostanza —, gli arabi avrebbero potuto raggiungere il Reno attraverso l’Europa orientale. In seguito a questo episodio Leone III Isaurico decide di riorganizzare radicalmente le forze navali bizantine.
Dopo aver brevemente esposto la situazione del Mediterraneo durante l’espansione araba fino al secolo IX, l’autore illustra le caratteristiche della marineria islamica, che è, alla sua nascita, sostanzialmente una marineria egiziana e siriana, e di quella bizantina, nonché le rispettive attività commerciali.
Nel terzo capitolo (pp. 73-104) lo storico pisano si occupa della situazione dei commerci e della navigazione nell’Occidente altomedievale. Il declino degli scambi nel Mediterraneo, come sottolineato in precedenza, non rappresenta un evento rapido e traumatico, ma è l’esito di un processo plurisecolare; fra i secoli VII e VIII l’attività dei centri marittimi spagnoli, francesi e italiani si riduce ai minimi termini e il "centro di gravità" (p. 75) dell’Occidente si sposta verso il Settentrione, in particolare nella zona fra la Loira e il Reno.
Tangheroni mette in evidenza come l’immagine di un’Europa ruralizzata e ripiegata su sé stessa sia, per quest’epoca, sostanzialmente accettabile, e aggiunge che "come la decadenza è ormai considerata l’esito di un processo lento e non di una crisi rapida e dovuta ad un solo evento esterno, così anche la ripresa dello sviluppo economico, della circolazione dei beni e degli stessi scambi commerciali in senso stretto appaiono oggi [...] l’esito di una lenta e plurisecolare evoluzione le cui cause andrebbero fondamentalmente viste in una dinamica interna alla società e all’agricoltura dell’Occidente" (p. 74).
Dopo queste premesse l’autore tratteggia la lenta e non facile, ma comunque reale, ripresa economica dell’Europa occidentale, dedicando particolare attenzione alle grandi proprietà fondiarie e alla ripresa degli scambi; prosegue facendo cenno ai problemi monetari dell’epoca post-carolingia, quindi prende in esame il ruolo commerciale di Venezia, già "strettamente legata al mare" (p. 94), e quello di Amalfi e dell’Italia meridionale.
Nell’ultima parte del capitolo lo storico pisano sposta l’attenzione verso l’Atlantico e il Baltico, presentando le attività marinare dei frisoni e i legami commerciali che intercorrevano fra l’impero carolingio, l’Inghilterra anglosassone e i popoli slavi.
Tangheroni dedica il quarto capitolo (pp. 105-126) alla grande espansione marittima dei vichinghi: alla fine del secolo VIII — del 793 è la famosa scorreria contro il monastero di Lindisfarne, in Northumbria — gli uomini del nord danno inizio a un’impressionante serie d’incursioni contro l’Inghilterra, l’Irlanda e l’Europa continentale. Si tratta di un fenomeno "[...] che colse di sorpresa i contemporanei e che, in un certo senso, non cessa di inquietare gli storici e di porre loro diversi problemi" (p. 105).
Dopo aver effettuato una distinzione fra l’attività di norvegesi e di danesi, proiettati verso Occidente, e quella degli svedesi, "vareghi" (p. 106), diretta in Oriente — ma si deve tener presente che nella Scandinavia dell’epoca non esistevano queste precise nazionalità —, l’autore, sulla scorta delle fonti, formula qualche ipotesi sulle cause della loro espansione. Poi descrive le incursioni vichinghe che a partire dal secolo IX interessano i territori dell’impero carolingio, l’Inghilterra e l’Irlanda; tali scorrerie non producono solo devastazioni, ma danno anche origine alla creazione "[...] di uno spazio economico unitario nel mare del Nord e nel Baltico, dove l’isola di Gotland era il centro di traffici che interessavano anche la regione costiera continentale allora chiamata Curlandia" (p. 115), cosa che costituisce "la conseguenza più rilevante dell’espansione dei vichinghi" (p. 115).
Quanto alla penetrazione varega nella Russia e nell’impero bizantino, essa ha caratteristiche più propriamente commerciali rispetto all’attività dei vichinghi in Occidente; gli scandinavi hanno inoltre un ruolo inequivocabile nello sviluppo dei centri protourbani più importanti, mentre altri vareghi formano un corpo scelto al servizio degli imperatori di Costantinopoli.
Quindi lo storico pisano tratteggia la tipologia e le caratteristiche delle navi vichinghe, conosciute abbastanza bene attraverso i ritrovamenti archeologici. Proprio grazie all’alto livello delle loro imbarcazioni — oltre che al loro coraggio e al loro spirito d’avventura —, i vichinghi possono raggiungere l’Islanda, colonizzata a partire dall’870, e successivamente la Groenlandia, scoperta attorno al 982 dal celebre Erik il Rosso. Essi inoltre esplorano "Vinland" (p. 123), una regione costiera dell’America settentrionale; a questo riguardo Tangheroni evidenzia come "[...] i vichinghi ebbero la sensazione, certo, di aver raggiunto terre ignote, ma le considerarono come una sorta di sconosciuta appendice del settentrione europeo" (p. 126).
All’inizio del quinto capitolo, intitolato La rivoluzione commerciale e il mare (pp. 127-186), l’autore spiega come dev’essere compreso, in questo contesto, il termine "rivoluzione", che, lungi dal voler suggerire l’idea di un cambiamento repentino e totale, intende sottolineare fortemente le "[...] differenze quantitative e qualitative tra gli accenni di ripresa della crescita economica e dello sviluppo degli scambi dei secoli precedenti al Mille e il decollo del commercio e la fioritura delle città che caratterizzano l’XI e, con ritmo ancor più veloce e più generale diffusione geografica, il XII secolo" (p. 127).
Successivamente egli delinea lo sviluppo delle città fra i secoli XI e XII, fortemente legato all’incremento demografico; un’analisi dettagliata è dedicata al ruolo di Pisa e Genova nella riconquista cristiana del Mediterraneo occidentale e alla presenza italiana in Oriente nel corso del secolo XI e, in seguito, durante e dopo la prima crociata.
L’indagine infine si sposta verso l’attività marinara di Catalogna, Linguadoca e Provenza, e d’Inghilterra, Fiandre, Bretagna e Galizia.
Lo storico pisano dedica il sesto capitolo (pp. 187-251) alla navigazione nel Medioevo nei suoi vari aspetti, e sottolinea inizialmente il netto salto di qualità che caratterizza il progresso della tecnica nautica e dell’arte della navigazione fra i secoli XII e XIV; poi passa a tratteggiare le tipologie delle navi che solcavano il Mediterraneo, ossia le galee, lunghe e sottili, che utilizzavano anche la propulsione umana, e i velieri, navi tonde, con grande capacità di carico e a sola propulsione eolica. Nella stessa epoca i mari del Nord erano dominati dalla Kogge, il grande veliero della marineria anseatica, radicalmente diverso dai drakkar e snekkar dei vichinghi, che, nel secolo XI, avevano raggiunto il livello massimo delle loro potenzialità.
Quindi Tangheroni prende in esame gli arsenali e i cantieri medievali occidentali e orientali, e aspetti particolari e di straordinario interesse dell’"andar per mare nel Medioevo" (p. 218), quali quelli relativi a naufragi, pirateria e guerra di corsa, e alle figure di armatori, marinai, mercanti, pellegrini e crociati. Una trattazione a parte è dedicata alla religiosità marinara, riguardante la pratica degli ex voto, la vita di preghiera durante la navigazione, la venerazione per la Madre di Dio e i santi.
Nelle ultime pagine del capitolo l’autore tratta dei rapporti, non sempre facili, fra "gente di mare" e "gente di terra" (p. 244).
Nel settimo capitolo (pp. 253-333) lo storico pisano si occupa degli aspetti e dei caratteri fondamentali del commercio nel pieno Medioevo: sottolinea che non è corretto prendere in considerazione soltanto i limiti e le ombre dello sviluppo economico fra la fine del secolo XII e gli inizi del XIV, considerandolo una semplice premessa alla crisi del Trecento, perché l’immagine che emergerebbe da un’analisi di questo genere sarebbe fuorviante. In realtà, ci si trova dinanzi non "[...] ad una pura crescita quantitativa, né alla crescita di questo o quel settore [...], bensì ad un processo di sviluppo nel senso proprio del termine, quindi di lunga durata, di progressiva estensione geografica e con aspetti anche qualitativi, come la moderna definizione del termine sviluppo richiede" (p. 254).
Nelle pagine successive Tangheroni prende in esame la crescita della produzione agricola, la rete dei trasporti terrestri e fluviali, e quei momenti di grande rilievo culturale, oltre che economico, costituiti dalle fiere e dai mercati.
In seguito egli si sofferma sulla crescita e sul ruolo commerciale delle città, sulla crescente necessità di moneta, sull’evoluzione che porta dalla figura del mercante itinerante a quella dell’uomo d’affari sedentario, su alcune novità tecniche quali la lettera di cambio, sulla presenza di uomini d’affari italiani — soprattutto fiorentini, senesi, pisani, genovesi, lucchesi e piacentini — in Europa e sulla loro etica e formazione culturale.
Nell’ottavo capitolo (pp. 335-442) l’autore indaga sugli aspetti del commercio marittimo nel pieno Medioevo e presenta anzitutto il ritorno della moneta d’oro nell’Europa occidentale — in cui, dall’epoca di Carlo Magno, vigeva un regime di monometallismo argenteo — come conseguenza dei commerci mediterranei, quindi prende in esame i caratteri propri del commercio marittimo, quali le forme societarie sulle quali esso si basava e le assicurazioni marittime.
Quindi dedica le pagine successive alla crisi politica ed economica del mondo islamico fra i secoli XII e XIII e alla comparsa "[...] sulla scena della storia di un nuovo popolo, i mongoli, dalle abitudini nomadi, con una religione fondata sullo sciamanesimo e su invocazioni al cielo eterno, dall’ottima organizzazione militare fondata su una rapida cavalleria leggera, abilissima nell’uso dell’arco" (p. 362). I mongoli, fra i secoli XII e XIII, sotto la guida di Cinggis-Khan — il nostro Gengis Kan — e dei suoi successori creano un vasto impero, raggiungendo Persia, Cina, Corea, Crimea, Ucraina — Kiev è saccheggiata nel 1240 —, Russia, Ungheria e Polonia; anche Baghdad cade, nel 1258.
In Occidente i mongoli, fra i quali vi erano anche cristiani nestoriani, da una parte suscitano terrore, dall’altra fanno nascere la speranza di aver trovato alleati contro il mondo islamico, il che dà origine a missioni diplomatiche quali quella del francescano Giovanni da Pian del Carpine che, nel 1246, partendo da Kiev, raggiunge Caracorum, dove consegna al Gran Khan, appena eletto dall’assemblea dei capi, una lettera del Papa. Considerevole nell’impero mongolo è anche la presenza di mercanti occidentali, come i veneziani Polo.
Lasciandosi alle spalle le steppe, i deserti e le montagne della via della seta, lo storico pisano tratta della via marittima verso l’Oriente, solcata nel secolo XIII, fra i primi occidentali, da un altro francescano, Giovanni da Montecorvino, che dal Golfo Persico s’imbarca per l’India settentrionale e poi raggiunge l’India meridionale e la Cina "[...] dove impiantò la Chiesa cattolica, morendo, ottuagenario, vescovo di Pechino" (p. 369).
Nelle pagine successive Tangheroni affronta la sempre più grave decadenza dell’impero di Costantinopoli, la presenza di genovesi, veneziani e catalani nel Levante, e segnala l’esistenza di piccoli traffici accanto a quelli a grande distanza; un ampio excursus è dedicato ai porti e alle rotte del Mediterraneo occidentale e alla navigazione nel Baltico, nel mare del Nord e nell’Atlantico.
Nel nono e ultimo capitolo (pp. 443-485) l’autore tratta dei mutamenti e dello sviluppo alla fine del Medioevo; in esso, dopo aver sottolineato la propria diffidenza nei confronti delle teorie "catastrofiste" (p. 444) in relazione alla crisi del Trecento (pp. 443-485), riguardo alla quale numerose sfumature meriterebbero di essere evidenziate, analizza la situazione del commercio marittimo nel Basso Medioevo e i primi passi dell’espansione europea verso l’Africa, le Canarie e le Azzorre, che ha come principale protagonista il Portogallo.
Il saggio, arricchito da un cospicuo apparato iconografico costituito da 41 figure fuori testo, termina con un’ampia bibliografia tematica (pp. 487-493).
Infine, una notazione di non scarso rilievo: Commercio e navigazione nel Medioevo di Marco Tangheroni non costituisce soltanto opera di sintesi relativamente a più settori di studio e all’attività di più anni — una vita — di ricerca, ma unisce alla serietà e al rigore scientifici un’inconsueta — per il genere — leggibilità. Questo ne fa contributo doppiamente significativo e meritorio alla corretta e diffusa conoscenza della civiltà cristiana romano-germanica medioevale in suoi aspetti dinamici, quelli della vita commerciale e della pratica marinara.
Ivo Musajo Somma di Galesano