Giacomo Lumbroso,
I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), con una premessa di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997, pp. 224, £. 32.000La figura umana e culturale di Giacomo Lumbroso è a tutt’oggi poco nota. Nato a Firenze nel 1897, giornalista, storico di scuola nazionalistica — suoi maestri furono Niccolò Rodolico (1873-1969) e Gioacchino Volpe (1876-1971) —, fascista convinto negli anni dello squadrismo, assume un atteggiamento critico nei confronti del partito fascista quando questo diventa regime e ne viene emarginato.
Dedicatosi con passione alla storia — con particolare talento per la divulgazione —, scrive numerosi volumi e saggi. Di origine ebraica, si converte al cattolicesimo al momento delle nozze e vive a Roma. Muore ancor giovane a Firenze nel 1944, all’indomani della liberazione della città, poco dopo il suo ritorno nella città natale al seguito degli Alleati.
Il suo studio sull’insorgenza contro-rivoluzionaria italiana
Per fornirne il necessario inquadramento storiografico, il testo nella nuova edizione è preceduto da una premessa critica (pp. 5-28) di Oscar Sanguinetti, direttore dell’Istituto per la Storia delle Insorgenze, curatore della riedizione. In tale premessa si sottolinea il nesso dell’Insorgenza con il processo di modernizzazione politica, che in Italia — a differenza delle trasformazioni economico-sociali avvenute gradualmente — si afferma, dopo la fase gradualistica del dispotismo illuminato, come "rivolgimento globale".
Tale modalità genera al suo inizio, soprattutto negli anni dal 1796 al 1814, una forte tensione civile e fa sì che l’opposizione a essa prenda la forma di reazione violenta, non di rado con caratteri di guerra civile.
Le rivolte popolari contro il feroce utopismo dei giacobini durante gli anni 1796-1799 sono da mettere in relazione con la consapevolezza popolare, più o meno esplicita, di trovarsi di fronte a una svolta epocale, con la prospettiva della radicale demolizione di un assetto socio-politico secolare, che induce incertezza negli orizzonti personali, familiari e sociali. I nobili e il clero, intrisi di cultura illuministica e scettica, diffusa dalla massoneria e dal giansenismo, sono invece favorevoli all’occupazione modernizzatrice, e sostanzialmente estranei in generale, quando non avversi, all’Insorgenza.
Passando rapidamente in rassegna la storiografia sull’Insorgenza, Sanguinetti rileva il sorprendente silenzio, o quantomeno la noncuranza, che la maggior parte degli storici ostenta a riguardo, e la spiega con il fatto che la storia dell’Insorgenza è storia di vinti, sia sul piano dei fatti che su quello della cultura che l’ha espressa.
Riscoprire questa vicenda e questa cultura da parte degli storici ottocenteschi postunitari non era per nulla funzionale alla formazione del nuovo "cittadino" italiano allora in atto.
Solo la storiografia nazionalistica dei primi decenni del Novecento — con Ettore Rota (1883-1958), Volpe e Rodolico — si occupa dell’Insorgenza, soprattutto nell’Italia Meridionale, in quanto crede di vedere in questa prima manifestazione di lotta contro la presenza straniera nella Penisola le origini del Risorgimento.
Una linea di maggior equilibrio è inaugurata da Jacques Godechot (1907-1994) — la cui opera di sintesi
L’oggetto della ricerca di Lumbroso è la prima fase — quella degli anni 1796-1800, in coincidenza con il Triennio Giacobino —, che ha convenzionalmente i suoi esordi nella primavera del 1796, quando il generale Napoleone Bonaparte (1769-1821), comandante dell’Armata franco-repubblicana d’Italia, sconfitti gli imperiali, entra in Milano e, proclamandosi amico dei discendenti dei Bruto e degli Scipioni, inizia la sottomissione della Penisola.
Singolare amicizia, quella repubblicana! Per pagare i soldati gli occupanti attuano fin da subito spoliazioni e ruberie sistematiche; tollerano le violenze dei soldati; impongono pesantissime contribuzioni, confische di armi, di bestiame, di viveri, di opere d’arte e dei pegni dei Monti di Pietà. E questo triste rituale si ripete poi in tutte le città della Penisola che i francesi andavano via via occupando.
La reazione popolare dei lombardi — ne tratta il capitolo
Bonaparte a Milano. Prime insurrezioni: Pavia, Binasco, Arquata Scrivia (pp. 37-57) — non si fa attendere.Dopo la Lombardia, è il turno delle Legazioni Pontificie, argomento del capitolo
Invasione degli stati pontifici. Rivolta e sacco di Lugo (pp. 59-74). Mentre le truppe pontificie all’arrivo delle armate francesi si arrendono quasi senza sparare, subendo un armistizio dalle pesantissime condizioni, a Lugo di Romagna, dove i commissari francesi avevano razziato oro e denaro e proceduto alla requisizione anche del busto argenteo di sant’Ilaro, patrono locale, il 30 giugno 1796 scoppia una violenta rivolta. Mentre l’alto clero invita ad arrendersi, duecento insorti tendono un’imboscata a una colonna di soldati francesi nei pressi di Barbiano.Venezia, in piena decadenza militare e politica, non si oppone all’occupazione napoleonica, dichiarandosi neutrale, ma non può arrestare la propria fine: ne tratta il capitolo
La Cispadana -I francesi nel Veneto. Le Pasque Veronesi. Caduta della repubblica di Venezia (pp. 75-99).Anche nella Repubblica di Genova, vicina della Francia, che già occupava da anni la Liguria di Ponente, fra l’ottobre del 1796 e il maggio del 1797 incuba la rivolta: è l’argomento del capitolo
Genova sotto il regime democratico. Moti popolari contro i "Giacobini" (pp. 101-110). Il 22 maggio 1797 il popolo, stanco dei soprusi francesi, si scatena per le vie alla caccia dei giacobini e dei francesi; facchini, carbonai, bettolieri, dopo aver saccheggiato l’armeria, attaccano l’Arsenale, facendo strage di rivoluzionari.Mentre Papa Pio VI (1775-1799) si rifugia in Toscana, a Trastevere, il 27 febbraio, si leva il grido di "Viva Maria!", inizio di un’insorgenza che infiamma il Lazio e l’Umbria.
Ad Albano, a Frosinone, a Terracina, nell’alta valle del Tevere e a Città di Castello, i rivoltosi oppongono una fiera resistenza agli attacchi dei francesi.
Ferdinando IV (1751-1825), re di Napoli, invia in territorio pontificio i suoi soldati e può entrare trionfalmente in Roma nel mese di novembre, ma per poco. Incalzato delle truppe del generale Jean Étienne Championnet (1762-1800), Ferdinando IV — è argomento del capitolo
Resistenza dell’Italia meridionale agli invasori. La Repubblica partenopea. Il moto reazionario (pp. 119-147) — deve ripiegare con il proprio esercito verso Napoli, che poi abbandona, con la regina Maria Carolina (1752-1814), per raggiungere Palermo su una nave dell’alleato inglese.In Abruzzo, ancora in armi, agiscono le bande di Giambattista Pronio e di Giuseppe Rodio; nella Terra di Lavoro, Pezza attacca le guarnigioni francesi; in Puglia quattro avventurieri còrsi incitano gli animi alla ribellione; in Basilicata il popolo trucida il vescovo di Potenza, Giovanni Andrea Serrao (1731-1799), ritenuto simpatizzante della Repubblica; in Calabria, forte è l’odio verso i francesi, destinato a riesplodere al momento della loro seconda invasione nel 1806.
In questo contesto matura la spedizione del cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827). In meno di cinque mesi, a partire dal 7 febbraio 1799, l’Armata Cristiana da lui guidata, partendo dalla Calabria, riconquista i territori del Regno e li restituisce a Ferdinando IV.
Nonostante il cardinale avesse garantito, durante le trattative della resa di Napoli, clemenza e moderazione verso gli sconfitti, il re, istigato dagli inglesi e dalla regina Maria Carolina, non rispetta i patti e, nonostante le proteste di mons. Ruffo, la sua vendetta anti-giacobina è implacabile, con circa cento condanne a morte, mentre la plebe cittadina si abbandona a ogni eccesso contro i repubblicani.
Il Granducato di Toscana, dopo l’occupazione del porto di Livorno da parte dei francesi nel giugno del 1796, può godere, per alcuni anni, dell’autonomia: è argomento del capitolo
I francesi in Toscana. Il "Viva Maria!". Vittorie Austro-Russe. Marengo. Estrema resistenza degli aretini (pp. 149-184). Ma il Direttorio francese attende solo un pretesto per impossessarsi anche di questi territori.Gli abitanti di Arezzo, nel mese di ottobre del 1800, quando le sorti della guerra ritornano a volgere a favore dei francesi, rimasti soli di fronte al ritorno del nemico, danno un’ulteriore prova di coraggio e di eroismo, quando tutta la popolazione s’impegna nella difesa della città. Il poderoso attacco francese, preceduto da un violento bombardamento, causa la morte di circa sessanta persone, fra cui donne e bambini. Il saccheggio che segue non risparmia né le chiese, né i conventi; è rasa al suolo la fortezza e vengono demolite alcune porte cittadine; s’impone alla città un forte contributo straordinario.
Con la pace di Lunéville, del 1801, e il ritorno dei francesi in Italia si chiude la fase dell’Insorgenza presa in considerazione dallo studio di Lumbroso.
Tuttavia nella Penisola gruppi di contadini armati continuano a errare per le montagne e la loro azione spesso prende le forme del brigantaggio. Una nuova fase si aprirà negli anni 1805 e 1806.
Dopo un capitolo di conclusioni (pp. 185-194), Lumbroso presenta come
I meriti della ricerca di Lumbroso, come scrive il curatore nella premessa, stanno soprattutto nella riscoperta e nella narrazione sintetica — l’unica finora apparsa — di una pagina di storia ancora pressoché sconosciuta.
Inoltre dall'opera emerge la conferma di come l’unità della nazione italiana, alla fine del Settecento, fosse già una realtà sul piano dei costumi, delle credenze, delle mentalità e dei valori religiosi.
Pure assai acuta risulta l’individuazione del nesso di continuità esistente fra l’opposizione popolare alle riforme dei prìncipi illuminati e l’insorgenza antigiacobina.
Certo, l’opera di Lumbroso è datata e non è esente da limiti, pur spiegabili con l’intento divulgativo del testo, il che non va comunque a discapito di una ricerca d’archivio di buona profondità ed estensione.
Per esempio, si sofferma solo sulle insorgenze del Triennio Giacobino, omettendo
Se pregevole è la critica di Lumbroso all’interpretazione "liberale" e "ufficiale" del Risorgimento — che tendeva ad allargare esageratamente la base popolare del processo di unificazione politica dell’Italia —, nel vedere le classi popolari di allora come proto-artefici del processo di unificazione politica dell’Italia, a causa della sua ottica proto-nazionalistica, lo studioso fiorentino incappa però senza ombra di dubbio in un’errata valutazione storica. Testimonianza di uno sforzo onesto di comprendere, influenzato dalle tendenze culturali dell’epoca, pur con i limiti descritti, l’opera di Lumbroso va segnalata soprattutto come pietra miliare in un campo di studi che il problema dell’identità nazionale e scadenze non poco significative del futuro della nazione italiana rendono necessario e urgente riprendere.
Paolo Martinucci