Minority report: l’angoscia della giustizia

 

Un frullato di rimandi e citazioni esplicite ma più spesso implicite (solo poche quelle “ammesse” dal regista), da  Rollerball, Gattaca, Judge Dredd, I tre giorni del condor,  Arancia Meccanica quindi Kubrick, L’uomo che sapeva troppo e perciò Hitchcock, i noir di John Huston, Dashiell Hammett e tutto il filone  del mystery  “hard-bolied school” statunitense anni 1930-’40, un misto di fantascienza ma anche (forse soprattutto) un giallo, un poliziesco, addirittura un “legal thriller” che tanto appassiona ed angoscia gli statunitensi. Senza dimenticare il substrato dovuto alle pagine di “1984” di George Orwell che descrivono il controllo totalitario del Partito (unico va da sé) del “Socing” tramite psico-polizia, tv interattiva e delazione di massa. Tutto questo è Minority Report che sta ovviamente sbancando il botteghino, per il suo essere una megaproduzione di Steven Spielberg con Tom Cruise protagonista (monoespressivo al solito) e Max von Sidow, Colin Farrell e Samantha Morton discrete “spalle”. Sembra che così  passi quasi in secondo piano il racconto breve da cui è tratta l’idea originale della pellicola. Uno scritto dell’autore ormai divenuto “di culto”, Philip K. Dick,  scritto nel 1953 e pubblicato nel 1956, dunque in piena “guerra fredda”, però radicalmente modificato da Spielberg e dagli sceneggiatori Scott Frank e Jon Cohen. È solo un film? Per giunta un blockbuster “fracassone” per teen-ager e appassionati di fantascienza? Non del tutto, anche se gli effetti speciali si sprecano e rischiano di egemonizzare l’immaginario e la percezione dello spettatore. Benché spesso zeppi di ironia e sarcasmo per la stessa funzione di tali effetti (Spielberg vuol far capire di non esser solo un assemblatore di meraviglie più o meno futuribili, un regista da spot, ma un direttore di talento e dalla mano ferrea, e in un’ardita serie  di piani-sequenza lo dimostra) come gli accenni al “totalitarismo dei consumi e della pubblicità” con gli inviti a comprare che davvero opprimono i poveri abitanti della Washington del 2054. Fino a che punto può spingersi la repressione della criminalità? È giusto colpire chi “potrebbe” commettere un reato? E come punirlo? Davvero certe persone sono pre-destinate a violare la legge? Siamo tutti potenziali colpevoli e dobbiamo quindi dimostrare persino di non “pensare” ad uccidere o rubare? Questi i temi, nient’affatto “leggeri” o “giovanilistici” che affronta il film, certo molto “americani” come il perenne scontro fra polizia e magistratura cittadina (l’Unità Pre-crimine è creata dalla città di Washington) e i “federali” cioè il Dipartimento della Giustizia (che la vogliono sotto il loro controllo in vista di un referendum per estenderla alla nazione). Conta persino – e in Europa suonerà certo strano ed “esotico” ma non negli Usa – il dilemma religioso e filosofico: siamo dotati del libero arbitrio o siamo predestinati a fare certe cose? Tutte queste angosce tipicamente statunitensi (e, forse anche il “peso” che deriva dall’accettazione, nel mondo reale,  della pena di morte, c’entra qualcosa nei dubbi che tormentano i protagonisti  della fiction) fanno si che il film non sia banale, anzi sin troppo carico di significati. In fondo quasi tutte le invenzioni che offrono l’involucro fantascientifico agli spettatori, sono estrapolazioni di oggetti e progetti già esistenti. A parte ovviamente i precognitivi, i Precogs  che hanno visioni (o meglio incubi perenni) di un futuro più o meno immediato, fatto di pulsioni criminali della popolazione e consentono a questa “polizia del pensiero” di intervenire prima che il reato sia commesso nella realtà materiale. Insomma, e qui davvero il vecchio Dick è l’ispiratore del racconto, corriamo sul filo del rasoio (blade runner) fra vita reale e simulacri “quasi umani”.

 

Articolo uscito su IL QUOTIDIANO della Calabria Pagina 52 “cultura e spettacoli”
Anno 8 n° 267 domenica 29 settembre 2002
con lo stesso titolo