Il marxismo si veste di nuovo

Il libro di Toni Negri supera lo statalismo del primo comunismo.
Oggi la presentazione.

Preceduto da fama “sulfurea” e incomprensioni – dovute a macchinosità in alcune parti del testo – “Impero”, di Antonio “Toni” Negri e Michael Hardt, Rizzoli, Milano, 2002, pagine 464, Є 20, è senz’altro un libro imprescindibile per avere una comprensione non superficiale di alcune tendenze (e non certo delle più insignificanti) socio-culturali e persino antropologiche del nostro tempo. Non sarà la cosiddetta “bibbia dei no global” – anche perché non è “contro” la globalizzazione -  ma certamente si tratta di un tentativo di andar oltre le teorizzazioni del “Capitale” e de “Il Manifesto” di Marx ed Engels, adattando e aggiornando alle condizioni e alla realtà attuali, l’ideologia marxiana, superare definitivamente la fase statalistica del comunismo sovietico e ipotizzare nuove forme di teoria e prassi rivoluzionaria. Negri ed Hardt innanzitutto non rifiutano la “globalizzazione”(tendenza a mondializzazione e connessione di economia, cultura, scambi commerciali, interdipendenza anche politica, sconvolgimento dei modi di vita)  – confermandosi in questo pienamente seguaci dell’impostazione di Marx –  e, così come nell’Ottocento il loro nume tutelare accettava e valutava positivamente, la “novità” della fase capitalistica che serviva a spazzar via il “vecchio” mondo e le sue strutture, gli autori  si mostrano felici dell’annichilimento delle forme di sovranità, e dei paradigmi socio-culturali, conosciuti sinora. Essi stessi tipici intellettuali di vita, frequentazioni e formazione globale, individuano nello Stato-nazione  e nel concetto di “popolo” due dei loro nemici principali che Empire, il nuovo paradigma della sovranità totale in quest’epoca postmoderna, sta devitalizzando e distruggendo. Da qui nasce, nelle pagine del libro, una forte vis polemica nei confronti di settori delle sinistre sia partitiche post-comunistiche che extraparlamentari, che si attarderebbero a proporre visioni e ricette passatiste:“…Qualsiasi proposta di una comunità isolata… sganciata dall’Impero e protetta dai suoi poteri con rigide frontiere, è destinata a finire con una specie di ghetto… Non si torna indietro a nessuna precedente forma sociale… In tal senso Deleuze e Guattari [Gilles Deleuze e Felix Guattari, riferimenti fondamentali, al pari di Karl M. Marx e Baruch Spinoza per gli autori ndr] sostengono che, invece di resistere alla globalizzazione capitalistica , occorre accelerarne l’andatura”. Cosa propongono Negri e il suo discepolo Hardt alla moltitudine che rimpiazza il popolo? Intanto di essere “new global”, più che “no global”, di portare il “movimento dei movimenti” a porre un’alternativa – l’ormai famoso “un altro mondo è possibile”– allo stesso livello di globalità. Una nuova “internazionale” –la Quinta dopo le ormai defunte 4 socialiste e comuniste – detta “rebelde” da Ignacio Ramonet di Le Monde Diplomatique, uno dei promotori delle manifestazioni del Forum Sociale Mondiale e dintorni. Ma per novatori del marxismo quali gli autori, un livello di azione troppo legato alle forme del “politico” in senso stretto è riduttivo, ed il fulcro del loro teorizzare si situa più nel solco di una “rivoluzione culturale e antropologica” ulteriore a quelle di “68” e “77” (nonché di quella maoista): “è la grande novità della militanza contemporanea: essa recupera le virtù dell’azione insurrezionale maturate in 200 anni di esperienze sovversive, ma, nello stesso tempo, è legata a un mondo nuovo, che non conosce un al di fuori. La militanza conosce solo un dentro, la vitale e ineluttabile partecipazione al complesso delle strutture sociali senza alcuna possibilità di trascenderle. Il dentro, è allora, la cooperazione produttiva dell’intellettualità di massa e delle reti degli affetti, la produttività della biopolitica postmoderna. Questa militanza resiste nei contropoteri e si ribella proiettandosi in un progetto di amore. C’è un’antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza comunista: la leggenda di s. Francesco… Per denunciare la povertà della moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società. Il militante comunista fa lo stesso nel momento in cui identifica nella condizione comune della moltitudine la sua enorme ricchezza. In opposizione al capitalismo nascente, Francesco rifiutava qualsiasi disciplina strumentale, e alla mortificazione della carne contrapponeva una vita gioiosa che comprendeva tutte le creature e la natura: gli animali, sorella luna, fratello sole, gli uccelli dei campi, gli uomini sfruttati e i poveri, insieme contro la volontà di potere e la corruzione. Nella postmodernità, ci troviamo a contrapporre la gioia di essere alla miseria del potere… una rivoluzione che sfuggirà al controllo, poiché il biopotere e il comunismo, la cooperazione e la rivoluzione restano insieme”. Ma, a parte l’annettersi l’incolpevole poverello di Assisi, qual è una delle indicazioni stavolta “pratiche” e non solo teoretiche, degli autori? La metamorfosi del comunismo prevede l’irruzione di “nuovi barbari”, finita l’organizzazione statuale e sociale “gerarchica” –  il che peraltro anche Marx ed Engels avevano “profetizzato” quale fase evolutiva ulteriore al capitalismo di stato – e, mescolando anche tesi di strutturalismo, tribalismo, deep ecology, animalismo, “trasgressione totale”, Negri ed Hardt invocano “Questo dispiegamento barbarico agisce su tutte le relazioni umane, ma possiamo vederlo all’opera con maggior chiarezza nelle relazioni sessuali e nella stessa configurazione del sesso… I corpi stessi mutano e si trasformano per dar vita a nuovi corpi postumani. La prima considerazione di questa trasformazione è la consapevolezza che la natura umana non è in nessun modo separata dal resto della natura, che non vi sono limiti fissi e immutabili tra l’umano e l’animale e la macchina, il maschile e femminile… Non solo sovvertiamo consapevolmente i confini tradizionali – ad esempio travestendoci – ma ci muoviamo anche nel mezzo, in una zona creativa e indeterminata”. 

Articolo uscito su IL QUOTIDIANO della Calabria pagina 47 “Cultura”
Anno 8 n° 101 sabato 13 aprile 2002 con lo stesso titolo