CONSERVATORISMO/Pat Buchanan, intelligenza della Destra americana

In nome della Repubblica sovrana

Patrick J. Buchanan è indubbiamente una delle figure più interessanti del panorama politico e culturale della Destra statunitense dell'ultimo decennio del secolo XX, benché - per molti versi - affatto atipica. Interessante, giacché originale rispetto a quanto soprattutto gli stereotipi massmediatici sono soliti presentarci come immagine "ufficiale" di quel mondo. Affatto atipico, giacché le sue posizioni sovente (e superficialmente) definite "fuori dagli schemi" affondano in realtà le radici in una lunga tradizione di pensiero e di azione politica, e anche perché - riguardo al presente - la sua è una posizione meno isolata dai contesti principali del conservatorismo nordamericano di quanto certe analisi (o non-analisi) pretenderebbero.





1.

Laureatosi cum laude in Inglese e in Filosofia alla Georgetown University retta a Washington dai padri gesuiti, e perfezionatosi presso la Graduate School of Journalism della Columbia University di New York, nel 1962 Buchanan - già cronista e giornalista economico - diviene, all'età di ventitré anni, il più giovane editorialista di un grande quotidiano nazionale sta-tunitense, il St. Louis Globe Democrat, che pure lo premierà affidandogli le mansioni di vicedirettore editoriale.

Tre anni più tardi diventa il primo membro full-time dello staff di quella che verrà chiamata "La risurrezione di Richard M. Ni-xon", il ritorno vittorioso dell'esponente Repubblicano cali-forniano sulla scena nazionale: ha così inizio una carriera politica che porterà il giornalista a ricoprire il ruolo di consigliere di ben tre presidenti nordamericani. Dal 1966 al 1974 serve Nixon: ini-zialmente come suo assistente, dal 1969 con l'incarico di assi-stente particolare del Presidente e, dal 1973, come suo consulente speciale. Nel 1974, diviene consigliere dell'amministrazione guidata da Gerald Ford. In seguito, sarà al fianco di Ronald W. Reagan.

Lasciati gl'incarichi alla Casa Bianca, dal marzo 1975 scrive una rubrica - From the Right - che viene pubblicata simultaneamente da diverse testate. Unanimemente considerato la "voce conservatrice" della Casa Bianca negli anni dell'impegno a diretto contatto con i vertici della politica statunitense, Buchanan scrive per le migliori pubblicazioni conservatrici del paese - come il settimanale Human Events e il quindicinale National Review -, ma viene ospitato anche da testate liberal e di sinistra quali The Nation e Rolling Stone, nonché sulle pagine che The New York Times e Newsweek riservano ai commenti e alle opinioni. Conduttore per l'emittente Mutual Radio's Buchanan & Co., è fra i fondatori di tre fra i più seguiti e influenti talk show della storia televisiva: The McLaughlin Group per la rete NBC, nonché Capital Gang e Crossfire - di cui è anche uno dei conduttori - per la CNN.

Nel 1985, Ronald W. Reagan lo richiama nelle stanze della presidenza nominandolo Direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, incarico che Buchanan svolge fino al 1987. Sposato con Shelley Ann Scarney, che dal 1969 al 1975 serve nello staff presidenziale, Buchanan è autore di cinque libri.

2.

Nel dicembre del 1991, Buchanan sfida il presidente George W. Bush cercando di ottenere la nomina presidenziale del Partito Repubblicano in vista delle elezioni del 1992. "Storica" è la campagna del New Hampshire (febbraio 1992), quando la vittoria dell'outsider costringe i media all'attenzione e i guru dell'opinione pubblica a riconoscere la serietà (benché, nella loro ottica, non l'auspicabilità) della sfida da destra lanciata all'establishment da un giornalista di profonda cultura prestato alla politica.

Alle fine delle primarie, Buchanan totalizza 3 milioni di voti Repubblicani in 33 Stati, piazzandosi appena alle spalle del senatore Robert Dole, poi scelto nel 1996 come front-runner Repubblicano in opposizione - perdente - al Democratico William J. Clinton.

Forte di questo successo, nel febbraio 1993 l'ex consigliere della Casa Bianca crea "The American Cause", una fondazione conservatrice che si fa paladino della difesa dei valori della morale cristiana e del diritto alla vita, nonché delle politiche ispi-rate alla tradizione federalista nordamericana, al concetto di governo limitato, all'idea di piena sovranità della nazio-ne a fronte della globalizzazione e, in politica estera, allo spirito sintetizzato nella formula - che richiama il nome del movimento di opposizione all'ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, movimento vastissimo e trasversale definitivamente silenziato nel 1941 dall'amministrazione di Franklin Delano Roosevelt - "America First".

"The American Cause" aspira così a divenire la nuova "casa comune" del conservatorismo nordamericano - di cui le candidature presidenziali del suo fondatore sono momenti politici forti, ma affatto esclusivi -, mentre, proprio nel mondo della Destra statunitense, s'infiamma il dibattito culturale. Per Buchanan, i conservatori debbono tornare agli autentici motivi ispiratori della propria tradizione che le lusinghe del potere raggiunto negli anni di Reagan hanno finito per annacquare, fermando lo spostamento centrista e liberal del movimento. Per molti dei protagonisti politici e culturali dei trionfi Repubblicani degli anni Ottanta - e di questi spesso paghi - si tratta invece di conservare lo status quo, ovvero appunto il potere, anche a costo di scendere a patti con gli avversari.

È il periodo di quelle che sono state definite le "guerre conservatrici" seguite all'era Reagan, nobiltà e miseria della Destra degli Stati Uniti. Il dibattito è peraltro molto più profondo che non una semplice discussione, per quanto animata, interna a un paese lontano: al cuore dei molti nodi che nella seconda metà degli Ottanta e all'inizio dell'ultimo decennio del Novecento vengono al pettine sta la profonda ragion di essere del conservatorismo nordamericano stesso, dunque quell'intera tradizione di valori che lo connette alla cultura classico-cristiana del Vecchio Continente nata in alternativa positiva al mondo sorto con la Rivoluzione di Francia. Al centro dello scontro, sempre più infuocato e combattuto senza esclusione di colpi alcuna, stanno l'"anima dell'America" (un'espressione che negli scritti e nei discorsi di Buchanan ricorre assai sovente); dunque il senso intrinseco dell'"esperienza nordamericana" nel quadro dell'ecumene occidentale; quindi pure - anche se per vie meno immediatamente evidenti - il significato profondo di quell'espansione che (per richiamare un'immagine decisamente suggestiva del demografo francese Pierre Chaunu) ha dilatato, da Cristoforo Colombo in poi, i confini della Cristianità europea.

Mutatis mutandis, la profonda frattura paradossalmente apertasi nel mondo conservatore statunitense proprio con la sua conquista delle istituzioni nazionali ripresenta, in panni americani, il confronto che le Destre del Vecchio Continente hanno vissuto fra fine dell'Ottocento e inizio del Novecento. Da un lato, forze culturali, e quindi politiche, risolute nel rifiutare il compromesso ideologico con la Modernità; dall'altro mondi e universi - anche profondamente diversificati al proprio interno - disposti a scendere a patti con il relativismo dell'"epoca del pluralismo ideologico", non solo dal punto di vista pragmatico (cosa che, forse, scandalizzerebbe poco anche gl'intransigenti), ma soprattutto da quello dei princìpi. Da un lato una Destra orgogliosa di essere tale; dall'altro una sorta di progressiva "corsa al centro" che utilizza voti di destra per attuare politiche liberal. Buchanan lo afferma, peraltro, sin dal 1973, ai tempi dell'Amministrazione Ford: Conservative Votes, Liberal Victories, è il titolo del suo secondo libro. In anni più recenti, la frattura è stata acutamente tanto quanto polemicamente analizzata dai politologi Samuel T. Francis in Beautiful Losers: Essays on the Failure of American Conservatism (University of Missouri Press, Columbia 1993) e Justin Raimondo in Reclaiming the American Right: The Lost legacy of the Conservative Movement (Center for Libertarian Studies, Burlingame [California] 1993).

Quando, nel 1996, Buchanan ritenta la Corsa alla Casa Bianca, i vertici del Grand Old Party (GOP), il Partito Repubblicano, continuano a snobbarlo. Il confronto, però, è giunto a questo punto allo stallo.

Il "buchananismo" raccoglie consensi ampi e costanti nei ranghi della Destra, e questo sia fra gli uomini di cultura che gli attivisti, sia fra i giovani che i meno giovani, sia fra i ceti medi che i lavoratori delle fabbriche. Il buon senso di fondo delle sue provocazioni, anche se a volte un po' urlate, viene riconosciuto pure dai commentatori più in voga nel paese e non sempre solo obtorto collo. I colpi assestati dai suoi sostenitori all'establishment Repubblicano lasciano il segno, se non altro riportando il discorso politico a occuparsi di questioni veramente importanti e non solo di motivi estemporanei di scarso interesse generale. Eppure i rapporti di forze restano immutati: da un lato le "Buchanan Brigades" che, pur compatte e numerose, non riescono a imporsi sul resto del mondo Repubblicano; dall'altro una fortezza inespugnabile che, guadagnata rispettabilità dopo decenni di confino ai margini della cultura e della politica nordamericane, si configura sempre più come "neoconservatrice", ovvero fortemente sensibile ai richiami delle sirene neocentriste, neoliberali e liberal che di fatto assicurano il mantenimento dell'onorabilità, quando non quello di posizioni di potere a scapito della purezza ideale.

In questo scenario, oramai da qualche anno sostanzialmente statico pur nella sua turbolenza, i colpi portati da Buchanan affondano sempre più taglienti e sferzanti.

3.

The New Majority: President Nixon at Mid-passage (Girard Bank, s.l. 1973) è il primo dei cinque libri scritti e pubblicati da Buchanan. In esso, il consulente speciale del Presidente degli Stati Uniti analizza gli anni del primo e parziale successo politico conservatore, quando la Destra conservatrice s'interroga sul "sostegno con riserva" a Nixon (la ricerca della nomination Repubblicana di Robert A. Taft e la candidatura presidenziale di Barry M. Goldwater, conclusesi con due sonore sconfitte, sono piuttosto lontane e i trionfi di Reagan molto di là da venire). Fra attese e speranze, è in questi anni e attorno alla figura contorta e ambigua di Nixon che i conservatori passano attraverso la prima prova generale del "potere" mettendo al centro della propria elaborazione culturale il senso dell'appoggio a un uomo politico di livello nazionale non precisamente conservatore eppure disposto, a certe condizioni e in certi ambiti, ad appoggiarsi a un movimento (anche numericamente) in crescita. "I Repubblicani e i conservatori faranno meglio [...] a progettare, creare e sostenere istituzioni in grado di difendere e di promuovere le idee e i valori dell'America media": queste parole, scritte in una delle ultime pagine di The New Majority, diventeranno presto il motivo centrale delle politiche della New Right e della "Destra religiosa" (a cui si deve gran parte del successo presidenziale di Reagan), poi dei contestatori da destra del neoconservatorismo, dunque dello stesso Buchanan che della tradizione e dello spirito della "Middle America" pretenderà di essere il più genuino rappresentante.

In Conservatives Votes, Liberal Victories: Why the Right Has Failed (Quadrangle/The New York Times Books, New York 1975), Buchanan sferza i due partiti maggiori alla vigilia delle presidenziali del 1976: il trend conservatore della nazione è - secondo il giornalista-politico - in evidente ascesa, così come forte è la pressione esercitata sul centro dalle ali destre sia del Partito Repubblicano, sia di quello Democratico. Fino a quando la grande politica ignorerà gli orientamenti di una maggioranza silenziosa che nel Paese non trova leader pienamente in grado di esprimerne le convinzioni profonde, ma solo macchine più o meno burocratiche che utilizzano i consensi per iniziative lontane le mille miglia delle vere sensibilità della nazione? "Nessuno dei due partiti - scrive Buchanan nell'ultimo capoverso di Conservatives Votes, Liberal Victories - dà oggi voce a quanto sta a cuore o difende gl'interessi dei cittadini che più duramente lavorano e più massicciamente producono. Entrambi i partiti sono occupati, sdegnosi del resto, a portare avanti il proprio sordido mercato di voti con il denaro delle tasse del popolo americano. E ci sono da dire cose che non vengono dette".

Right From the Beginning (Little, Brown and Company, Boston 1988) è invece la narrazione autobiografica di un Buchanan (un vero best-seller) che ricorda cosa abbia significato crescere da cattolico e da conservatore nella Washington degli anni Quaranta e Cinquanta, e nella Chiesa di Papa Pio XII. Buchanan non ha mai fatto mistero della propria fede cattolica; anzi. Eppure la sua profonda ispirazione tradizionalista e i suoi continui positivi richiami alla Dottrina sociale cattolica - cioè ai princìpi del diritto naturale - non gli hanno impedito di ottenere vastissimi sostegni anche nel mondo protestante, persino in quello ebraico e addirittura in quello libertarian.





4.

È con gli ultimi due libri, però, che Buchanan porta a compimento la propria critica al mondo neoconservatore.

Con The Great Betrayal: How American Sovreignity and Social Justice Are Being Sacrificed to the Gods of Global Economy (Little, Brown, & Co., New York 1998) e A Republic, Not an Empire: Reclaiming America's Destiny (Regne-ry Publishing, Washington 1999) Buchanan mette a fuoco, e uno dopo l'altro demolisce, i miti del neoprogressismo postcomunista internazionale che nel capitalismo liberale delle grandi corporation e dei grandi centri di potere economico-finanziario contrari all'autentico spirito di concorrenza, dunque alla vera proprietà privata e alla sua massima diffusione popolare, hanno oggi i propri alfieri più decisi.

L'anarchia - non la libertà - del commercio mondiale, a cui si è deciso di sacrificare ineluttabilmente (e per nessun'altra ragione se non l'accrescimento dell'anarchia stessa) ogni altra considerazione e dimensione (etica, storica, politica, religiosa), sembra oggi - questo il giudizio di Buchanan - perseguire quell'obiettivo di una "società senza classi" che solo ieri era patrimonio della cultura d'impostazione e di dominazione marxista e che oggi, con mezzi e dinamiche nuove, propone la medesima tabula rasa funzionale al dispotismo dei pochi sui molti. Condizionando i governi e gli Stati, la "nuova religione" del globalismo economico-finanziario spoglia i popoli e le nazioni della libertà, della sovranità e del diritto all'autodeterminazione.

Che intere strutture politico-istituzionali siano, nel Novecento, cadute vittime della finanziarizzazione della vita pubblica Buchanan lo illustra ripercorrendo, in modo originale, la storia dell'espan-sionismo statunitense: in maniera costante e puntuale, ogni qualvolta si è allontanato dai veri princìpi che ne hanno ispirato la fondazione, il Paese si è trasformato in quella struttura "imperialistica" che nel volume Il XXI secolo sarà americano (trad. it. Il saggiatore, Milano 1994) Alfredo G. A. Valladão, docente all'Istituto di studi politici di Parigi, descrive efficacemente come "America-mondo".

5.

La requisitoria serrata, e a tratti feroce, rivolta al mondo neoconservatore e all'establishment Repubblicano ha così portato Buchanan a compiere scelte politiche tanto radicali, quanto controverse.

Nell'autunno del 1999, a circa dodici mesi dalle elezioni del novembre 2000, il giornalista-politico ha ufficializzato la propria decisione di abbandonare il GOP per cercare la nomination presidenziale nel Reform Party del miliardario texano Ross Perot, probabilmente dovendo contendere la palma dell'investitura finale al magnate Donald Trump o all'ex campione di wrestling e oggi governatore del Minnesota Jesse Ventura.

Certe affinità macroscopiche fra le proposte politiche di Perot e di Buchanan sono riscontrabili in alcuni volumi del primo quali United We Stand: How We Can Take Back Our Country (Hyperion, New York 1992); Not for Sale at Any Price: How We Can Save America for Our Children (Hyperion, New York 1993); e Save Our Job, Save Our Country: Why NAFTA Must Be Stopped-Now! (con Pat Choate, Hyperion, New York 1993). Indubitabilmente, fra le battaglie combattute da "The American Cause" e da "United We Stand America" - l'organizzazione che Perot decideva di fondare nel 1993, a Dallas, nel Texas, all'indomani del risultato oggettivamente buono ottenuto nelle presidenziali dell'anno prima in cui si era candidato come indipendente - esistono delle somiglianze. Ma fra "la gente, padrona del Paese" di Perot e l'ideale della "Repubblica delle origini" di Buchanan - quella in cui il modello politico è Cincinnato e l'orizzonte etico sono le virtù classiche - corrono pure molte e profonde differenze.





Come Buchanan farà a combattere efficacemente le proprie battaglie pro-life e a promuovere una visione del mondo che ha radici in Edmund Burke, Gilbert Keith Chesterton, Thomas Stearns Eliot e Russell Kirk all'interno di un circo in cui il personaggio più serio continua a essere lo stesso Perot, è un enigma che i nordamericani probabilmente disposti a seguire il conservatore tutto di un pezzo in una rottura di altro tipo con il mondo Repubblicano non hanno ancora sciolto. E che molti dei suoi simpatizzanti, amici ed estimatori gli rimproverano (e forse mai gli perdoneranno) di aver gettato sul tavolo da gioco forse un po' troppo a cuore leggero.

Su quello stesso tavolo restano però, duri come macigni, anche i problemi sollevati dalle sagaci considerazioni svolte da Buchanan sulla storia dell'America Settentrionale e sul rapporto di amore-odio che essa intrattiene con la propria originaria identità di fondazione. Considerazioni che, a modo suo, Buchanan articola e che pochi, pochissimi altri mettono invece altrettanto opportunamente a tema.

Interesserebbe davvero poco (cioè solo quei cultori un po' originali di argomenti alquanto esotici) se la diatriba sul "buchananismo" si risolvesse solo in una controversia fra modelli politici d'Otreoceano. Gli è invece che quello che siamo soliti definire un po' scioccamente "antiamericanismo" è la vera tradizione politica e culturale dell'America Settentrionale, laddove con "antiamericanismo" mi par d'intendere la critica e l'opposizione all'americanizzazione del globo perseguita attraverso la colonizzazione finanziaria di popoli e di Paesi che a suon di dollari vengono soggiogati e cooptati in una gigantesca struttura socialdemocratica mondiale in cui la Terza Via di sintesi fra Mammona e Leviatano regna incontrastata soprattutto perché benedetta ritualmente dal neoilluminismo un po' debolista di quel mondo che, dopo averne poste tutte le premesse, un giorno si è disinvoltamente e a buon mercato scoperto inorridito dalle ideologie. Con Washington, Jefferson, la tradizione coloniale che i Padri fondatori avevano alle proprie spalle e l'ideale "curtense" che ha ispirato ogni vero grande statista, uomo di pensiero, uomo di azione o cittadino americano, Patrick J. Buchanan (e con lui milioni di americani: direttamente e non, consapevolmente e non; sia che lo riconoscano, sia che non lo facciano; sia che lo seguano in casa Perot, sia che da tale scelta si mostrino disgustati) definisce l'"America-mondo" e la mondializzazione economicistica di cui quella è causa e conseguenza "il grande tradimento". Gli Stati Uniti, sostiene Buchanan invocando l'intera tradizione del suo paese, hanno sì una missione nel mondo: quella di mostrare a tutti quanto sia giusto, buono e bello difendere la sovranità di una repubblica di uomini liberi e virtuosi. Così che ogni nazione lo faccia.

Tornare a leggere le pagine di Lo Stato servile di Hilaire Belloc dopo aver chiuso quelle di Buchanan potrebbe essere alquanto utile per distinguere, esorcizzando la seconda, fra Terzo Millennio e Terza Via.

Marco Respinti

Pubblicato, con il medesimo titolo, in http://alleanza-nazionale.it/index2.htmPercorsi di politica, cultura, economia,

anno IV, n. 26, febbraio 2000, pp. 18-20. Versione originale integrale.