Reagan e oltre

 

L’elezione di Ronald Wilson Reagan alla Casa Bianca nel 1980, e di nuovo nel 1984, ha de facto segnato il trionfo nel conservatorismo politico statunitense.

Del resto, Reagan era stato del resto indicato come una delle figure più promettenti di quel mondo almeno da quando il giornalista M. Stanton Evans gli aveva dedicato, nel 1968, pagine importanti di The Future of Conservatism: From Taft to Reagan and Beyond. L’ex governatore della California giungeva dunque ai vertici istituzionali del paese in modo molto meno improvviso di quanto spesso abbiano lasciato intendere, soprattutto al di fuori degli Stati Uniti d’America, certi analisi poco approfondite. È, infatti, negli anni Cinquanta che vengono gettati i primi semi culturali di un movimento di pensiero — il conservatorismo contemporaneo — che, appunto solo molto più tardi, superando ostracismi e ghettizzazioni, ha saputo inserirsi a pieno titolo nel dibattito politico nazionale.

La storia della Destra statunitense nella seconda metà di questo secolo è dunque la storia di una lunga crescita che ha visto impegnati intellettuali e pensatori di rango. Prima pionieristicamente, poi sempre più coscientemente, la Destra conservatrice ha generato un vero e proprio movimento di opinione che negli anni si è configurato come un grande network di iniziative editoriali, di fondazioni, di organizzazioni e di associazioni. Questo mondo, variegato ma per molti versi compatto, si è progressivamente affermato prima come interlocutore qualificato, poi come comprimario, infine come alternativa anche di governo in un’America dominata, nei decenni del dopoguerra, dalle diverse forme della cultura liberal saldamente attestata in tutti gli hautes lieux del potere nazionale. Intessendo una critica serrata e puntuale al dominio dell’Establishment progressista, il conservatorismo statunitense è dunque divenuto "maggiorenne". Peraltro, nell’arena politica, esso non sempre ha trovato figure che ne sapessero adeguatamente interpretare le istanze più profonde, benché prima di Reagan personaggi come Robert A. Taft e Barry M. Goldwater abbiano saputo accendere gli entusiasmi degli attivisti e, in certa misura, degli intellettuali.

La non sempre perfetta e lineare corrispondenza fra conservatorismo culturale e destra politica, soprattutto partitica, sottolinea la maggior ampiezza di quello rispetto a questa, e ancora più la loro non automatica e rigida sovrapponibilità, laddove il conservatorismo — che dal 1945 "risorge" dopo decenni di stanca — si sostanzia soprattutto e anzitutto come un "atteggiamento conservatore" nei confronti della società, dell’uomo e della Modernità antitetico a quel modo corrosivo e relativista d’interpretare la realtà che, a partire da una famosa opera di Ferdinand Destutt de Tracy, frutto dell’era napoleonica, si è soliti definire "ideologia".

Ciò detto, la radiografia della Destra nordamericana della seconda metà del Novecento ne evidenzia senz’altro le stratificazioni. La "Old Right" postbellica — in parte erede di una cosiddetta "Old Right" prebellica — è venuta configurandosi come una coalizione fra conservatorismo tradizionalista, intellettualità anticomunista e liberalismo classico "anglosassone". Nel momento in cui, verso la fine degli anni Settanta, il conservatorismo si butta nella politica attiva più di quanto abbia mai fatto dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, alcuni analisti ne rinvengono una certa connotazione "populista" (peraltro in un’accezione tipicamente americana, ovvero sostanzialmente "jeffersoniana"): è la stagione in cui la cosiddetta "Destra religiosa", o "Destra cristiana", condiziona fortemente il panorama politico, il momento in cui l’anticomunismo e il patriottismo classici trovano nuove forme espressive, e l’era in cui la "questione morale" (su tematiche quali il diritto alla vita, la famiglia e la preghiera nelle scuole) diviene uno dei punti irrinunciabili e qualificanti di ogni piattaforma conservatrice. È anche l’epoca, però, in cui l’elaborazione culturale segna il passo (nonostante la pubblicazione di opere importanti da parte dei più illustri "teorici" del movimento, sembra mancare una riflessione complessiva che sappia essere incisiva e di vasto respiro) a vantaggio di un’ipertrofia dell’azione.

Benché l’investitura di Reagan non trovi d’accordo tutti i leader della Destra della fine degli anni Settanta, proprio la vittoria elettorale del 1980 costituisce il successo principale e il merito storico della "New Right" — questo il termine tecnico di un movimento che con la "Nuova Destra" francese e italiana ha in comune solo la denominazione —, secondo alcuni continuazione innovativa della "Old Right" degli anni Cinquanta e Sessanta, secondo altri "inizio del tradimento". Da un lato il consenso attorno alla figura dell’ex governatore della California riesce nell’impresa di unire le diverse anime del conservatorismo in una forza dal forte impatto politico, dall’altro il momento del trionfo coincide con quello della crisi del movimento. Se, dunque, per molti aspetti, è proprio in quel periodo che la pianta di antica seminagione del conservatorismo inizia a dar frutto coagulando il consenso attorno a periodici, fondazioni e organizzazioni, la stessa "New Right" emerge fondamentalmente come momento critico della Destra nordamericana contemporanea.

Alla rapida disgregazione di questa "Nuova Destra" possono quindi essere ricondotte, in forma più o meno diretta, le successive mutazioni del conservatorismo statunitense.

La reazione culturale all’attivismo della "New Right" coincide infatti con la nascita di quella che è stata definita "seconda generazione della ‘Old Right’ postbellica": al suo centro, il tentativo di adeguare la filosofia conservatrice classica al mutare delle circostanze storiche, ma soprattutto quello di salvare la Destra da ogni compromesso con le ideologie progressiste. Un secondo filone, cresciuto e maturato nella stagione reaganiana, è quello cosiddetto neoconservatore, in parte parallelo e in parte discendente di certi ambienti "New Right": la sua visione del mondo più "centrista" e, secondo alcuni, poco — o addirittura punto — in continuità con le tradizioni conservatrici più autentiche e con le diverse anime della "Old Right" nordamericana ne determinano presto — soprattutto su tematiche di politica estera, sulla spinosa questione del welfare state, sul dibattito fra società e Stato — l’incompatibilità con altri fronti della Destra culturale degli anni Ottanta e Novanta. Infine, un terzo esito della "New Right" è l’ingresso formale di molti ex attivisti ed ex leader nei ranghi del Partito Repubblicano: quello di Newt Gingrich, oggi presidente della Camera dei deputati, ne è un esempio illustre, laddove, di per sé, né la "Old Right" né la "New Right" hanno mai costituito mondi automaticamente assimilabili al Partito Repubblicano in quanto tale. Con toni sostanzialmente identici a quelli usati nella critica al neoconservatorismo — a cui si rifanno molti, non tutti gli uomini politici Repubblicani oggi definiti "conservatori" dalla stampa —, anche questa priorità tributata alle logiche di partito (prima che a quelle ideali e culturali) è stato sovente giudicata dagli studiosi del movimento come un oggettivo segno di cedimento e dagli Old-Rightist come l’ennesimo tradimento ideologico.

Il successo del momento neoconservatore nell’ambito del complesso e stratificato mondo della Destra statunitense contemporanea, sostanzialmente coinciso con i dodici anni di dominio Repubblicano dall’era Reagan alla transizione Bush, è quindi all’origine di un’altrettanto oggettiva mutazione — ma anche di un’ulteriore sensibile crisi — del conservatorismo nordamericano. Da quasi un ventennio, questo mondo è attraversato da forti dibattiti che spesso si mutano in scontri assai seri, tanto che non manca chi ha creduto di poter addirittura parlare di "guerre conservatrici". Ben oltre le caricature che ne ha offerto la stampa, la candidatura alla Casa Bianca dell’outsider Repubblicano Patrick J. Buchanan nel 1992 e nel 1996 s’inserisce proprio in questo panorama dilacerato, sforzandosi da un alto di tornare a indossare i panni culturali classici della "Old Right" pre e postbellica, dall’altro di tentare una nuova "Reagan Coalition" senza conservatori spuri.

Di fatto, il dibattito interno innescato dalla scomparsa dell’elemento istituzionale comunista negli ex Paesi d’Oltrecortina, l’accelerazione del processo di globalizzazione dell’economia mondiale, la crisi dello Stato nazionale, nonché il perdurare e l’acuirsi della "questione morale" che aveva infiammato la "New Right" negli anni Settanta rischiano oggi di schiacciare un fecondo movimento politico-culturale che è stato espressione — sempre al di là di certe caricature giornalistiche — della "America profonda", dell’Heartland. Le defezioni, l’abbassamento dei toni ideali, le mutazioni culturali, ma anche la critica che rischia di scadere in criticismo preconcetto, uniti all’oggettiva mancanza — per ora? — di "spiriti magni" che non sfigurino accanto ai grandi padri del conservatorismo angloamericano del Novecento, ma anche del XIX e del XVIII secolo (benché non manchino neppure oggi studiosi di razza, discepoli seri e figure di tutto rispetto), è il grande problema della Destra statunitense attuale.

È come se da qualche anno essa si stesse interrogando profondamente sulla propria identità e sulle strategie da perseguire, ma senza riuscire a proporre soluzioni davvero efficaci. La presidenza Reagan — e soprattutto il variegato mondo che, più o meno remotamente, ne ha preparato i successi elettorali — ha costituito l’emblema di come l’azione culturale profonda possa incidere seriamente nella vita politica e istituzionale di un paese. In America Settentrionale questo è avvenuto perché l’azione culturale, spesso nascosta e umile, ma decisa nei contenuti e nelle proposte, si è raccordata e ha saputo esprimere l’ethos stesso del paese, ovvero un senso comune in cui i cittadini americani si sono ritrovati e riconosciuti. Allo stesso modo, essa ha segnato anche il punto in cui la salita si muta in discesa nel momento in cui si è perso contatto con la nazione, adagiandosi sugli allori conquistati.

Per molti, moltissimi versi il conservatorismo nordamericano deve ancora esprimere il meglio di sé; ossia, deve ancora dar compiutamente voce all’identità spirituale, culturale e politica del paese, sapendosi rinnovare con un salutare ritorno alle radici. Ogni soluzione di continuità in questo senso è solo presagio di morte. In questo senso, tutto il mondo è davvero paese.

Marco Respinti

mimir@iol.it

 

[Comparso con il medesimo titolo in

Charta minuta, anno II, n. 6, aprile 1998 — intitolato Amerika Ammerica —, pp. 7-9.

Sono state apportate alcune variazioni stilistiche]

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