Intervista
a
Marco Invernizzi sull’evoluzione del rapporto tra Una missione di Fede e Cultura Marco
Invernizzi, presidente dell’ISIIN, l’Istituto per la Storia delle
Insorgenze e dell’Identità Nazionale, da oltre 30 anni impegnato
nelle principali battaglie politico-culturali, studioso del Movimento
Cattolico, è interlocutore autorevole per compiere un’analisi sul
contesto storico, sociale, politico e religioso delle elezioni, sulla
reale “posta in gioco”: Il
cosiddetto crollo delle ideologie seguito a quello degli stati
totalitari che le incarnavano “Ciò
non comporta il ritorno al reale ma l’egemonia di un’altra
ideologia, che assume nomi diversi — "pensiero debole",
relativismo, nichilismo —, che in sostanza afferma che l’uomo non
può — e quindi non deve — conoscere la verità sull’uomo, sul
mondo e su Dio. Le conseguenze del diverso approccio alla realtà sono
particolarmente visibili nel dialogo con un giovane, che non è più
anzitutto interessato a conoscere come cambiare il mondo, ma a come
vivere meglio nel “suo” mondo. Il tema è di grande importanza e
va tenuto costantemente presente”. La
Chiesa ha colto i cambiamenti ed adattato il suo atteggiamento nei
confronti delle vicende politiche vero? “La
svolta si rende manifesta soprattutto nel Convegno ecclesiale del
1995, a Palermo, quando viene sintetizzato il programma pastorale dei
cattolici italiani nella formula del "progetto culturale"
orientato in senso cristiano. Consiste nella presa d’atto che sono
una minoranza e che la fine dell’esistenza di una società
culturalmente cristiana — peraltro già evidente almeno dai
referendum su divorzio e aborto nei decenni 1970 e 1980 — comporta
l’assunzione di un atteggiamento missionario rivolto a mutare i
criteri di giudizio dei singoli, cioè la loro cultura, affinché con
essa muti anche la cultura della nazione: "il nostro non è il
tempo della semplice conservazione dell’esistente — disse
Giovanni Paolo II a Palermo
— ma della missione". Questo rapporto fra fede e cultura, così
presente in tutto il magistero del regnante Pontefice, implica una
presenza diversa della Chiesa italiana nella società. Mentre fino ai
primi anni del decennio 1990, ha delegato la difesa dei propri
interessi nella vita pubblica, soprattutto al partito che, in qualche
modo, avrebbe dovuto rappresentare i cattolici, il venir meno di
quest’ultimo e la consapevolezza di essere minoranza comportano una
presenza diretta, sul piano culturale, del mondo cattolico nelle sue
diverse articolazioni e una forma di pressione su tutte le forze
politiche affinché assumano, nei rispettivi programmi, i princìpi
della Dottrina Sociale. La decisione su quali forze votare viene
lasciata alla responsabilità del singolo, invitato a scegliere dopo
aver confrontato i programmi con
la Dottrina Sociale naturale e cristiana”. Tale
approccio viene rafforzato dagli interventi degli ultimi tempi?
“Si,
caratterizzano la prolusione del card. Ruini al Consiglio Permanente
della CEI del 26-29 marzo. In essa, il presidente dei vescovi italiani
ricorda l’importanza del voto contro ogni forma di astensionismo,
ribadisce che la Chiesa non si schiererà con alcuna forza,
richiamando le decisioni di Palermo e in particolare il discorso del
Papa. Ma ciò non legittima “una "diaspora" culturale
dei cattolici, un ritenere cioè ogni idea o visione della vita
compatibile con la fede, e nemmeno una facile adesione a forze
politiche e sociali che si oppongano o non prestino sufficiente
attenzione ai principi e contenuti qualificanti della dottrina sociale
della Chiesa (cfr. il discorso del Papa a Palermo, n. 10)”. Nel
comunicato finale del 3 aprile, viene indicato un
"decalogo", ossia una serie di princìpi qualificanti e
irrinunciabili, dalla centralità della persona al diritto alla vita,
passando attraverso la famiglia, come società naturale fondata sul
matrimonio, che possiede il diritto di educare i figli in modo
conforme ai propri ideali. Essi ricordano l’"eptalogo" del
Patto Gentiloni, quando l’UECI, Unione Elettorale Cattolica
Italiana, nelle elezioni del 1913 indicò ai cattolici quei candidati
che si impegnavano a sostenere pubblicamente 7 princìpi fondamentali
per il bene di una società cristiana”. Le
elezioni sono percepite dalla gente come
scontro epocale paragonabile al 1948 o alle competizioni
precedenti al 1989, quando il voto era chiesto da partiti
ideologicamente "nemici"? “L’opinione
pubblica è sempre meno attenta allo scontro politico e spesso fatica
a capire le differenze fra i programmi dei partiti e delle coalizioni.
Tutto sembra ridursi a un problema di potere personale, tanto che si
è coniato il termine "personalizzazione della politica". Vi
è molto di vero in queste osservazioni, ma manca una considerazione
fondamentale e cioè che il bene comune va comunque ricercato in
qualsiasi situazione. Oggi l’Italia vive sottoposta a un sistema di
potere che dura dal 1996 nella versione elettorale del
"maggioritario", ma che sostanzialmente perdura almeno dagli
anni 1960, dall’inizio dei governi di Centro-Sinistra. Se questo
sistema di potere dovesse venir premiato dagli elettori, rischierebbe
di perpetuarsi per molti altri anni, mettendo a repentaglio ogni
ipotesi di restituzione alle famiglie della loro centralità sociale e
politica, la riforma federalista dello Stato, la fine della
persecuzione fiscale, la libertà di scegliere la scuola da parte dei
genitori e così via. Se invece il Centro-Destra dovesse vincere le
elezioni, potrebbe essere messo alla prova un modo di governare
diverso — così almeno dicono le dichiarazioni pubbliche
programmatiche — da quello che ha infierito sulla società per
almeno 40 anni”.
Articolo uscito su Secolo
d’Italia pagina 17 “Idee & Immagini”
n° 113 |