Riflessione su cause e conseguenze del conflitto in Kósovo-Metohjia

Giovanni cantoni è direttore della rivista Cristianità e reggente nazionale di Alleanza Cattolica, movimento civico-culturale di laici impegnati, che tematicamente studia e diffonde, in vista della sua applicazione, la Dottrina Sociale naturale e cristiana, facendo riferimanto agli insegnamenti del Magistero e dei pensatori cattolici contro-rivoluzionari in aderenza alla realtà del mondo d'oggi. Cantoni ha approfondito un'analisi delle cause remote e prossime del conflitto in Kósovo-Metohija - i "beni della Chiesa", vocabolo greco con cui ancor oggi i serbi denominano l'ovest della regione ricco di monasteri e di chiese cristiane ortodosse) -, quale estremo risultato della fine del "comunismo realizzato", quello in versione "sovietica", con la catena di crolli e di "implosioni", a partire dal novembre del 1989, di tutte le dittature del genere in Europa, compresi i cosiddetti "non allineati" Albania e Jugoslavia, secondo una prospettiva evidenziata da pochi nel mare magnum dell'informazione globale, che però acutamente illumina origini e imprese di Slobodan Milosevic, presidente della "miniJugoslavia" ma anche capo del Partito Socialista Serbo, e della moglie Mira Markovic, leader della JUL, Sinistra Unita Jugoslava, federazione di gruppi vetero e neocomunisti.

Gli abbiamo pertanto chiesto alcune delucidazioni. La natura del regime instaurato da Milosevic può esser definita "socialista", "comunista", "continuazione del titoismo quale particolare forma nazionalistica di socialismo reale", o cos'altro? E come giudica quegli ambienti delle Sinistre "non interventiste" per i quali, invece, non è una dittatura perché Milosevic è stato scelto da maggioranze di serbi e/o jugoslavi, in elezioni libere e pluripartitiche e l'opposizione può esprimersi abbastanza liberamente?

"Il regime della Repubblica Federale Jugoslava costituisce adattamento di quello precedente a fronte della situazione che si è venuta a creare in seguito all'implosione del sistema imperiale socialcomunista, nel 1989, caratterizzata dall'alternanza controllata di nomenklature. In Jugoslavia non vi è stata nessuna alternanza controllata di nomenklature, come invece è accaduto in pressoché tutti i paese ruotanti direttamente o indirettamente attorno al fuoco occidentale di tale sistema, l'URSS. Per qualificare il regime importa notare che l'ideologia socialcomunista, quando intende instaurare un'ideocrazia in un paese, tenta di inculturarsi in esso, di combinarsi con i caratteri del popolo che abita il paese, di presentarsi come l'inveramento, come il "progresso" necessario risultante dallo sviluppo dialettico dei caratteri nazionali. E di tali caratteri copre il più ampiamente possibile la propria sostanza ideologica: pochi si entusiasmano per il materialismo dialettico, i più per l'inveramento della propria storia nazionale, che presuppone una pacificante coerenza con essa. Così, quando l'ideologia deve venir meno, restano la copertura nazionalista e i tratti funzionali della nomenklatura. Nel caso in questione, un esplosivo cocktail di nazionalismi e una nomenklatura militare, a dominante serba, come unico collante. Quindi, il crollo della struttura non è avvenuto per sostituzione di nomenklatura, ma per separazione di nomenklature. E ogni nomenklatura nazionale ha costruito un regime ispirato al e dal proprio patron internazionale, quindi più leggero nel caso dello spezzone sloveno e di quello croato - a ispirazione tedesca -, più pesante nel caso di quello serbo, senza referenti diretti. Quanto a parlare di democrazia, quale che sia il significato che si voglia attribuire al termine, che ne patisce molti e con diversità radicali, credo si sia ampiamente fuori strada. Nessuno ricorda il trattamento patito lo scorso anno da Vuk Draskovic? ".

In ambienti "di destra" e cattolici non certo "progressisti", si vive con difficoltà e con sofferenza la tragedia del conflitto perché - oltre le modalità della guerra e le vittime civili - si paventa l'imposizione di un egemonismo "militar-etico mondiale", corollario della globalizzazione finanziaria e culturale, con gli Stati Uniti d'America identificati quale fulcro di tali tendenze. e l'attacco alla Jugoslavia, o Serbia che sia, prodomo al dominio totale. lettura rafforzata dalla constatazione che - sulle due sponde dell'Atlantico - i più accaniti sono i progressisti, i liberal, sia intellettuali che politici. Come valuta tali posizioni?

"Trovo l'egemonia militar-etica mondiale non una realtà da paventare, ma da constatare, frutto di una lunga storia. La 1ª Guerra Mondiale ha visto la fine di una certa Europa grazie al decisivo intervento statunitense. La 2ª Guerra Mondiale ha visto la fine di quanto restava dell'Europa dopo l a1ª Guerra Mondiale, a prescindere dalla qualità di chi la rappresentava. Nel 1989 è terminata la "3ª guerra mondiale", la cosiddetta Guerra Fredda, scoppiata nel 1946 e finita nel 1989, con corollari caldi pari a circa 20 milioni di morti. Chi ha vinto la 1ª, la 2ª e la 3ª guerra mondiale è storicamente titolare dell'egemonia paventata. Titolare di un enorme potere, bisognoso di correzione e di integrazione culturale e morale. Per guardare solo agli anni corrispondenti alla 3ª guerra mondiale, la presenza dell'URSS non faceva migliori gli USA, ma il confronto convinceva. Oggi l'alternativa agli USA è rappresentata dalla Repubblica Popolare Cinese e dalla Repubblica Federale di Jugoslavia: qualcuno ha nostalgia dell'URSS? Credo nessuno, in prospettiva, se non eventualmente la nomenklatura del popolo russo, i 18 milioni di ex dirigenti del PCUS; non i popoli liberatisi dalla tutela ideologica, come i polacchi, o quelli liberatisi dalla tutela ideologico-coloniale, come i lituani. Qualcuno scopre oggi la natura degli USA e opta per la Cina e la Serbia? Ciascuno sceglie i suoi".

 

Per approfondire:

AA. VV., "Il libro nero del Comunismo. Crimini, terrore, repressione" Mondadori, Milano, 1998. Aleksandr Nekric, "Popoli deportati. Il genocidio delle minoranze nazionali sotto Stalin: una ferita ancora aperta", La Casa di Matriona, Milano 1978. Vladimir Bukovskij, "Gli archivi segreti di Mosca", Spirali, Milano 1999. Giovanni Cantoni, "Kosovo, ex Jugoslavia, marzo 1999, un'appendice calda della guerra fredda", in Cristianità, anno XXVII, n. 287-288, marzo-aprile 1999. liMes. Rivista Italiana di Geopolitica, La guerra in Europa, nn. 1-2, 1993; "Il triangolo dei Balcani", n. 3, 1998; e il quaderno speciale "Kosovo. L'Italia in guerra", supplemento al n. 1, 1999. Vincenzo Epifanio, "L'oriente europeo e il problema balcanico. Dal principio dell'età moderna al tempo nostro", C.E.R. Pironti, Napoli 1940. "La questione jugoslava dopo il 15 gennaio 1992", intervista con don Lush Gjergj, a cura di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XX, n. 203, marzo 1992. Marco Respinti, "Dopo le bombe un'Europa più piccola", in Secolo d'Italia, 31-3-1999. Maurizio Blondet, "Quelli vanno casa per casa", in Avvenire, 27-3-1999. "Gli apostoli del Mc Kosovo. Thomas L. Friedman: "La globalizzazione è l'America". Un libro che fa discutere gli Usa. La replica di Samuel Huntington", in il manifesto, 2-4-1999. Irina Alberti, "Dal comunismo al nazionalismo", in Avvenire, 4-4-1999. Gianni Baget Bozzo, "Se il comunismo finisce in esaltazione nazionalista", in il Giornale, 9-4-1999. Ismail Kadarè, "Kadarè: la grande bugia serba", in La Stampa, 10/04/1999. "Il Kosovo è cosa vostra. Liberal e interventista. Parla Stanley Hoffmann, uno dei massimi esperti americani di questioni europee", in il manifesto, 24-4-1999. Irina Alberti, "Tra resistenza e sogno imperiale" e Olivier Clément, "La vera cultura bizantina non è affatto "cesaropapista"", in Avvenire, 30-4-1999.

 

Articolo apparso su L'ARNO n° 5 anno XII Maggio 1999