Kósovo-Metohija: cause remote di una guerra "non dichiarata".
Belgrado, ultima isola comunista europea.

Non è certo facile districarsi nel "quagmire" balcanico, come lo definisce il Pentagono; nella melma di etnie, popoli, odî, cascami dei furori ideologici, interessi geopolitici, quindi economici, territoriali e quant'altro. Né purtroppo, la gran parte dell'informazione (pur "globale" come mai prima), riesce a fornire elementi chiari, precisi - al di là dell'ovvia propaganda delle parti in conflitto - sui "perché" veri della guerra, preferendo abbandonarsi al "colore" stereotipato: "sono balcanici, feroci e barbari" che non spiega nulla. Vanno allora chiarite alcune cose che vengono "sommerse" in un quagmire mediatico simile a quello del terreno.

La "Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia" implode ed esplode "dopo" il 1989 perché anch'essa, benchè diplomaticamente terzomondista e non allineata, faceva parte -data la natura ideologicamente marxista del regime- del sistema socialcomunista. Pur essendo infatti "deviazionista e revisionista", dunque fuori da "Patto di Varsavia" e blocco militare sovietico, ne condivideva l'essenza di ideocrazia, di dittatura totalitaria. Crollato su sé stesso l'involucro imperialistico sovietico, anche altri regimi, pur apparentemente non "collegati" franano e l'albania (ufficialmente "isolata") ne è clamorosa conferma. In Jugoslavia, per la natura di coacervo di popoli, culture, memorie (anche di eccidi antichi e recenti), per la compenetrazione sul territorio delle situazioni, tutto è più difficile, sanguinoso, lungo. Parte della nomenklatura comunistica - serba in maggioranza ma non solo- non accetta il "cambio" sia pur con tutte le garanzie felicemente sperimentate in quasi tutte le altre ex-dittature. Ai detentori del potere nella "Lega dei Comunisti" LCJ, non basta il vedere che in Polonia, Ungheria, Bulgaria, Ucraìna e Russia, le "seconde file" delle dittature (talvolta persino qualche capo supremo) pur travestendosi da "democratici di sinistra", progressisti, socialisti o altro, mantengono le leve economico-finanziarie, burocratiche (giustizia, servizi segreti, apparati dei ministeri) ed in parte politiche; vogliono controllare tutto come "prima". Così lo scontro è inevitabile e si avvia una fase "del carciofo" al contrario (rispetto alla tecnica di conquista statuale e sociale teorizzata da Lenin e Gramsci rispettivamente). Slovenia, Croazia, Macedonia, Bosnia-Erzegovina, si "staccano" perché alcuni, pur provenienti dal partito unico, accettano "la parte in commedia" (Kuçan, Tudman, Gligorov, Itzbegovic) per incanalare e guidare comunque le spinte popolari antiregime. I nomenklaturisti di belgrado, fra cui si distingue Slobodan Milosevic, invece rifiutano e, pur mantenendo anche le forme del regime titoista, come il nome di "federazione jugoslava", mutano la LCJ in "Partito Socialista Serbo" (per soddisfare i più nostalgici la moglie di Milosevic, Mirjana Markovic, docente di "sociologia marxista"(!), raccoglie una ventina di gruppi nella JUL, Sinistra Unita Jugoslava) e, soprattutto, cavalcano i riemergenti sentimenti nazionalistici della popolazione, esasperando artificialmente le differenze etniche e persino religiose. La "maschera" assunta dai vetero-comunisti di una difesa dei "serbi" minacciati, riesce ad innescare -anche per errori e colpe delle altre etnie e dell'assenza di un fulcro europeo è chiaro- scontri nelle varie "zone miste", le famose "Krajine" (da Vojska Krajina, confine militare nell'Impero asburgico) in Croazia, Bosnia e nelle grandi città. Per coprire il tentativo di mantenere un regime comunista "vecchio stile" si provocano eccidi, repressioni, esodi e profughi.

Tutto in realtà era iniziato proprio nelle terre dette dai serbi Kósovo e Metohija (i "beni della Chiesa", la rete di monasteri cristiani ortodossi e del Patriarcato di Pec) e dagli albanesi Kósova e Rrafshi i Dukagjinit, "Piana di Dukagjin", già intorno a metà anni 1980. Abitato in prevalenza da etnia albanese, godeva di larga autonomia politico-amministrativa sotto Tito (Josif Broz 1892-1980) -anche per neutralizzare i rischi di attrazione dello stato albanese, retto per di più da un regime marxista rivale- cancellata progressivamente già a partire dall'81 e poi definitivamente da Milosevic e dai suoi compagni dal 1988. Milosevic l'anno prima, in un memorabile discorso, strumentalizza la commemorazione della sconfitta di Gazi Mestan nel Kósovo Polje ("Piana dei merli") del 28 giugno 1389 - il fatidico Vidovan (giorno di San Vito), in cui un esercito panslavo (serbi, bulgari, romeni, greci) guidato dal principe serbo Lazar viene distrutto dai turchi segnando l'inizio della dominazione "islamica" nei Balcani e la fine dei serbi come stato indipendente -, per travestirsi da "nazionalista panserbo" e da "difensore del Cristianesimo", rinfocolando le naturali propensioni etniche e religiose conculcate da un quarantennio di Comunismo. Tutto per rimanere al comando, facendo appello, per ottenere un consenso "di massa", non ai decrepiti richiami dell'utopia socialistica dell'autogestione o del marxismo, ma ai sentimenti profondi del popolo. Vecchio trucco naturalmente, quello di nascondere il controllo totalitario in senso comunista, del potere, sotto i drappi "nazionali" e finanche religiosi, già usato da Lenin e Trockij nel 1918 per irrobustire l'allora nascente Armata Rossa, da Stalin nel 1941 per respingere l'invasione dell'ex-alleato Hitler e dallo stesso Tito nel '41-'45 (guerra partigiana di "liberazione nazionale" e non solo "proletaria").

Queste le indispensabili premesse per comprendere la tragedia in atto, rilevando comunque anche lo strano "meccanismo" che fa esplodere le crisi "a catena" (prima Slovenia, poi Croazia, poi Bosnia Erzegovina, ora Kósovo) -pur se tensioni e scontri si sono verificati contemporaneamente in tutti i territori, ma i conflitti aperti deflagrano "a ruota"- e che fa presagire prossimi focolai: Montenegro, Macedonia, soprattutto Sangiaccato (incastrato fra Serbia, Kósovo, Bosnia e abitato dall'etnia detta "turchi balcanici") e Vojvodina (forte presenza di ungheresi), rischiando coinvolgimenti globali con Albania, Grecia, Bulgaria.

Il resto è certo "opaco", magari difficile da accettare più che da "capire" per chi è cattolico ovvero non è certo comunista "ex, post o neo" -la Nato che bombarda ma non dichiara guerra, la nausea per l'ipocrisia dei "guerrafondai progressisti", i vari Clinton, Blair, Veltroni e reggicoda che straparlano di "lotta del bene contro l'incarnazione del demonio"(!) o di "guerra etica"- ma: a) i tentativi del regime di Milosevic di travestirsi in "ortodosso panslavo"; b) quelli dei liberal, delle Sinistre socialdemocratiche occidentali che accreditano (chissà perché...) tale propaganda descrivendolo come "medievale, nazionalista, religioso"; c) il pieno sostegno invece delle "altre Sinistre", quelle rimaste vetero-comuniste, nostalgiche di vietcong, castrismo e pure dell'URSS (come Cossutta, già "noto agente del Cominform" secondo l'ammiraglio Martini capo del Sismi), sono 3 forme di disinformazione che impongono di ribadire che a Belgrado c'è l'ultima dittatura comunista in versione "carrista" d'Europa. Perché quel che stanno facendo miliziani (detti i "plavi" dal colore della divisa azzurra) e poliziotti politici ai kosovari albanesi, è identico a ciò che hanno sempre fatto, deportando e massacrando intere popolazioni, altri regimi "rossi" (in Russia, Caucaso, Ucraìna, Lituania, Estonia, Lettonia, Etiopia, Tibet, Mongolia, Cina, compreso quello di Tito in Istria e Dalmazia ai nostri compatrioti con foibe ed esilio) che, pertanto, è indispensabile salvare non solo i profughi albanesi ma il popolo serbo stesso aiutandolo a liberarsi dall'oppressione. E questo non solo per fare quel che non è stato fatto con gli ungheresi nel 1956 o altri insorti anticomunisti ma per evitare le tragedie annunciate di cui sopra. Certo, lo "sceriffo globale" preoccupa è infatti "...Senza distintivo né diritto ma solo manganello..." come ha efficacemente scritto Marco Respinti; certo, segmenti di popolazione kosovara e l'UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës, Esercito di Liberazione della Kósova) in particolare, non sono "il meglio", a causa delle radici ideologiche marxiste-leniniste retaggio dell'Albania di Enver Hoxha di alcuni suoi fondatori (come Rexhep Quosaj); o per il sostegno goduto a Rambouillet da "consulenti" statunitensi (ex-funzionari del Dipartimento di Stato) lautamente pagati dallo speculatore supercapitalista George Soros, o i legami con le mafie balcaniche e non (che fanno il paio con quelli identici di Milosevic e compagni). Ma, come hanno scritto sensatamente Irina Alberti e Maurizio Blondet su "Avvenire" e Giovanni Cantoni su "Cristianità", al potere a Belgrado ci sono comunisti che usano il terrore in tutte le sue forme (come da "Libro Nero") contro la povera gente kosovara e serba e coprono tali pratiche con slogan patriottici e religiosi. Niente salvezza e libertà per questi oppressi?

Filippo Salatino

Per approfondire:

AA.VV. "Il libro nero del Comunismo. Crimini,terrore, repressione", Mondadori, Milano, 1998. Vladimir Bukovskij "Gli archivi segreti di Mosca", Spirali, Milano, 1999. Giovanni Cantoni "Kosovo, ex Jugoslavia, marzo 1999, un'appendice calda della guerra fredda", in Cristianità, n° 287-288, anno XXVII, marzo-aprile 1999. Limes, rivista italiana di geopolitica: "La guerra in Europa" n.ri 1-2 1993; "Il triangolo dei Balcani" n°3 1998; i Quaderni speciali "Kosovo l'Italia in guerra" supplemento al n°1 1999. Vincenzo Epifanio, "l'oriente europeo e il problema balcanico. Dal principio dell'età moderna al tempo nostro", C.E. R. Pironti, Napoli 1940. Marco respinti "Dopo le bombe un'Europa più piccola", Secolo d'Italia, 31 marzo 1999. Maurizio Blondet "Quelli vanno casa per casa" Avvenire, 27 marzo 1999. Irina Alberti, "Dal comunismo al nazionalismo", Avvenire 4 aprile 1999. "La questione jugoslava dopo il 15 gennaio 1992" intervista con don Lush Gjergj a cura di marco Invernizzi, in Cristianità n° 203, anno XX, marzo 1992.

 

Articolo apparso su "L'ARNO" N°4 anno XII APRILE 1999