GYMNASIUM
e
OSSERVATORIO PERMANENTE DEI LIBRI DI TESTO

Col patrocinio di Regione Veneto, Provincia e Comune di Verona
in collaborazione col Comitato
Nazionale Associazione Difesa Scuola Italiana ed i Comitati per le libertà


ORGANIZZANO

Sabato 16 dicembre 2000

presso la sala Convegni della Cariverona (via Garibaldi, 2 Verona)


IV CONVEGNO NAZIONALE DI STUDI

QUID EST VERITAS?
VERITA’, CULTURA, TESTO SCOLASTICO



[Gymnasium Livorno 0586/211243 - osservatorio@onelist.com - segreteria
p.mainardi@flashnet.it]



RELAZIONE DEL PROF. MONS. ANTONIO LIVI
[Premesse] Il tema della verità nei libri che servono alla formazione dei giovani nelle scuole secondarie e nelle università è un tema sul quale ho riflettuto da sempre. Prima ancora di dedicarmi al mestiere del filosofo della conoscenza – mestiere che ha come strumento di lavoro la logica e come materia prima proprio il tema della verità, cioè della conoscenza autentica - , fin da studente mi ha incuriosito la pretesa degli insegnanti e dei libri di testo di impormi delle visioni della storia e della vita, delle scienze e della religione che mi apparivano (ed erano effettivamente) abusive dell’autorità scolastica, e anche scientificamente arbitrarie: insomma, pretese del tutto illegittime.

Qualche ricordo a proposito degli insegnanti. Al liceo "Visconti" di Roma, la professoressa Maggi, insegnante di Italiano (peraltro apprezzata e benvoluta a da noi studenti) insisteva a denigrare Manzoni romanziere per il suo falso realismo (falso perché comprendeva un personaggio non reale, la Provvidenza), e ancora di più Manzoni drammaturgo dicendo – dogmaticamente, non come un’opinione da discutere - che il cristianesimo aveva distrutto la tragedia con l’ottimismo della Provvidenza, e che dunque una tragedia cristiana non poteva esserci. Io non riuscivo a crederci: e difatti è una tesi ideologica del tutto campata per aria, una tesi che nemmeno Friedrich Nietzsche, l’autore della Nascita della tragedia e dell’Anticristo, ha mai sostenuto; né ho mai trovato conferma di tesi del genere nella critica letteraria di un marxista come Gyiorgy Lukàcs. Un altro insegnante, non ricordo più come si chiamava, distribuiva in classe (era professore di Filosofia) degli opuscoli di una setta buddista che si chiamava "Io sono tu": era una dottrina di assoluto monismo impersonale, come se tutta la storia della filosofia occidentale non fosse una presa di coscienza del contrario, ossia dell’emergenza dell’io nel mondo e della dialettica dell’alterità personale; come se Spinoza e Hegel avessero annullato il soggetto nel mondo invece di annullare il mondo nel soggetto. Poi, all’Università di Roma, il giustamente famoso Natalino Sapegno, di notoria appartenenza al Partito comunista, insegnava che della Divina commedia si poteva "salvare" come vera poesia solo l’Inferno, perché nelle altre due cantiche prevaleva la teologia. Anche in questo caso, un’opinione non solo estrema ma anche poco scientifica (non condivisa dai maggiori dantisti italiani e stranieri) veniva imposta come un dogma, solo perché era funzionale alla propaganda anticristiana. E non erano da meno gli altri illustri docenti di orientamento laicistico o marxista: Alberto Pincherle, Angelo Brelich, Tullio Gregory, Federico Chabod (che insegnava Storia del risorgimento e dipingeva Pio IX come il nemico dell’Italia unita), Guido Calogero (di quest’ultimo ricordo le assurde dimostrazioni dell’impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, che erano non esercitazioni di logica ma esibizioni di sofistica, anch’essa finalizzata alla propaganda anticristiana).

Anche a proposito dei libri ho dei ricordi nitidi. Il primolibro di storia della filosofia che ebbi per le mani era il celeberrimo Lamanna. Era un’edizione dell’anno 1941, passatami da mio zio che aveva fatto il liceo quando ancora c’era il regime fascista. L’ultimo capitolo del terzo volume del testo faceva finire tutta la filosofia mondiale del Novecento nella filosofia del fascismo: Mussolini era dunque il più grande filosofo, più di Bergson, più di Heidegger, più di Dewey, più di Croce, più di Gentile. Poi seppi che voce Fascismo dell’Enciclopedia Italiana, firmata da Benito Mussolini, era stata scritta da Giovanni Gentile… L’edizione del 1955 che successivamente comprai era stata purgata del capitolo sul fascismo, sostituito dal capitolo sull’esistenzialismo e sulla fenomenologia. E la conclusione comunque era analoga: la filosofia antica e medioevale è stata storicisticamente e dialetticamente superata dal pensiero moderno e contemporaneo, dove non c’è più posto per la fede cristiana e solo resta lo spazio per la scienza, la tecnica e la politica. Generazioni e generazioni di italiani sono stati, come me, indottrinati in senso scettico e pragmatistico dall’insegnamento liceale della filosofia. Senza alcuna possibilità di acquisire spirito critico e senza possibilità di verifiche: che la filosofia cristiana medioevale non valesse nulla e non fosse da studiare dovevamo crederlo per fede: perché gli insegnanti passavano da Aristotele (o addirittura da Platone) direttamente a Giordano Bruno, a Galileo, a Cartesio, a Bacone, e così non c’era modo di farsi un ‘idea di che cosa avessero potuto dire Agostino, Anselmo, Tommaso, Bonaventura, Duns Scoto.

Da queste pretese degli insegnanti, che erano anche una prepotenza, nasceva in me l’esigenza di studiare per conto mio, per farmi un’idea mia, per difendere la mia coscienza dalla manipolazione della quale era evidentemente oggetto. Non lo dicevo in questi termini, ma già era questo: la lotta per non farmi derubare di quella verità che mi serviva per vivere responsabilmente, per orientarmi nella vita.

Passati gli anni, ora che sono io a mia volta un docente universitario e collaboro con tanti insegnanti di liceo, mi ritrovo a combattere la battaglia dei libri di teto. Anzitutto, scrivendone alcuni io stesso (come il manuale di storia della filosofia edito presso la Dante Alighieri); e poi incoraggiando colleghi a scriverne nelle loro materie di specifica competenza. A quale scopo? Allo scopo di difendere la libertà delle coscienze dei giovani dalla minaccia più grave: il pragmatismo scettico (che si può chiamare anche scetticimo pragmatico). Il pragmatismo scettico viene indotto nella coscienza dei giovani che frequentano le scuole e l’università dai libri di testo e dagli insegnanti che utilizzano l’insegnamento scolastico e universitario per diffondere ideologie, invece di trasmettere cultura scientifica e umanistica. Per "ideologia" intendo una teoria che non intende descrivere e interpretare la realtà delle cose esistenti in natura e degli eventi storici, ma intende giustificare una prassi già adottata, già decisa. L’ideologia moderna è l’equivalente della sofistica antica, è l’intelligenza applicata alla tecnica della persuasione, in vista dell’egemonia di una forza di potere economico e politico. È stata ed è ideologia quella componente vittoriosa dell’Illuminismo che diede vita alla Massoneria, vera forza egemone del mondo negli interi ultimi due secoli. È stata (e poi è finita nel nulla, anche se ne sopravvivono i fantasmi) il marxismo, giustamente definito come "ideologia della rivoluzione" (Del Noce). Sono oggi ideologia quelle variegate espressioni neoilluministiche (sostanzialmente affini all’ideologia massonica) che prendono il nome di razionalismo critico, di radicalismo libertario, di progressismo, di laicismo. L’ideologia non ha cuore la conoscenza e la trasmissione della verità, né teoretica né storica né empirica né epistemologica: ha a cuore l’argomentazione dialettica (simulando o dissimulando, tacendo e dicendo) in vista della manipolazione delle coscienze; ha a cuore – come diceva Gramsci – l’obiettivo della formazione di un nuovo "senso comune", diverso e contrario rispetto a quello della tradizione cattolica, che consenta al "nuovo Principe" di governare senza un’opposizione vera e forte.

Invece dell’ideologia, che cosa si può desiderare che facciano gli insegnanti e che cosa dovrebbe esserci nei libri di testo, in concreto? Si può desiderare ed esigere che sia rispettato il metodo scientifico della ricerca e dell’insegnamento, il che significa semplicemente professionalità. E il metodo scientifico è proprio il contrario dell’ideologia: è voler sapere – nei limiti in cui si può sapere – come stanno effettivamente le cose in ogni singolo campo di ricerca, nell’ottica parziale e storicamente determinata di ogni singola comunità di ricerca; per poi trasmettere agli alunni proprio questi risultati frammentari e parziali della ricerca, ciascuno con il proprio linguaggio e la propria specifica autorità epistemica, senza imporre dogmaticamente una sintesi ontologica e valoriale che nessuna scienza ha il diritto di enunciare, perché non ne ha gli strumenti cognitivi e nemmneo il linguaggio. Le grandi sintesi metafisiche e morali non sono teorie scientifiche da imparare sui banchi di scuola ma certezze del senso comune che solo la personale riflessione filosofica può eventualmente formalizzare approfondire. E la fede religiosa non è proposta da alcuna scienza, ma dalla rivelazione divina e dalla testimonianza della Chiesa. Il lavoro intellettuale e coscienziale di sintesi e di valutazione dei dati scientifici è compito del singolo giovane e non della scuola: tantomeno della scuola di Stato, di uno Stato che continua a volersi far accettare come "Stato etico" e pertanto educatore.

In questo termini bisogna esigere "verità" dai libri di testo: che siano veramente scientifici e non ideologici, che si limitino a compiere (è già tanto!) il loro dovere didattico e informativo, senza pretendere di svolgere un compito "educativo" o "rieducativo" che nessuna disciplina realmente ha e che quando viene svolto sottende sempre - in positivo - fini di propaganda politica (ossia l’egemonia culturale della propria fazione politica) e – in negativo – fini di lotta contro la sopravvivenza della fede cristiana (per l’eliminazione definitiva della Chiesa dalla scena sociale).

Saranno ora opportuni, per giustificare le tesi che ho esposto, alcuni cenni sulla nozione di verità, con particolare riguardo alla verità storica (perché sui testi di storia si fa giustamente un discorso più coinvolgente).

[1. La nozione di verità come "corrispondenza" di un discorso alla realtà di cui si parla] Abbiamo tutti un concetto di verità che nasce dialetticamente dall’esperienza dell’errore. Con l’esperienza dell’errore l’uomo sente l’urgenza di distinguere il vero dal falso, ossia di avere un criterio che sia il fondamento sicuro del logos, cioè delle cose che si pensano e che si dicono. Il primo a porre il problema della verità in questi termini è stato Parmenide, il quale ha fondato la verità sull’essere delle cose; affermando che la verità si riferisce a ciò "che è e non può non essere", Parmenide ha espresso per primo la struttura stessa della verità, la quale è una relazione tra "ciò che è e non può non essere" (einai) e la mente umana o intelletto (logos), che può formulare giudizi provvisori e incerti (le doxai) oppure giungere alla "verità tutt’intera". Parmenide ha dunque intuito che la struttura della verità è di tipo relazionale, e da qui è poi è scaturita la concezione filosofica della verità come "conformità" della mente – o meglio di ciò che essa afferma nell’atto di giudicare – con la realtà. Questa concezione della verità è stata poi recepita nella formulazione medioevale, che è quella forse più comunemente conosciuta, di "adaequatio intellectus et rei" (cfr Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 16, art. 1).

Ora, la nozione di "adaequatio" presuppone che l’essere delle cose sia in qualche misura intelligibile – vale a dire capace di essere còlto dall’intelletto – e che l’intelletto, a sua volta, sia capace di aprirsi – ovvero sia intenzionalmente aperto all’essere stesso, il che fa vedere come sia essenziale la relazionalità parmenidea. Tenendo fermo il concetto parmenideo di verità come struttura relazionale, gli immediati successori del filosofo di Elea hanno approfondito ulteriormente il tema della verità. Aristotele, studiando gli atti conoscitivi con i quali l’uomo è in grado di affermare consapevolmente la verità delle cose, precisa che si può parlare di verità o di falsità soltanto nel momento del giudizio, quando cioè il soggetto, dopo una attento esame dei dati acquisiti, li confronta con una ipotesi di afermazione o di negazione e conclude "sentenziando" che tale ipotesi è conforme all’oggetto così come appare. Quindi, è solo nel giudizio che il nostro pensiero ha la possibilità (in positivo) di affermare il vero, così come ha la possibilità (in negativo) di non esprimere la verità conosciuta, ossia di cadere nell’errore; per questo Aristotele dice che la verità è una proprietà del pensiero nel momento in cui il soggetto formula il giudizio (atto di dividere o di unire precedenti nozioni), dichiarandosi consapevole di aver conosciuto qualcosa: "Il vero è l’affermazione di ciò che è realmente congiunto e la negazione di ciò che è realmente diviso; il falso è, invece, la contraddizione di questa affermazione e di questa negazione […]. Infatti, il vero e il falso non sono nelle cose, ma solo nel pensiero; anzi, per quanto riguarda gli esseri semplici e le essenze, non sono neppure nel pensiero" (Metafisica, VI, 1027b, 21ss.).

Ora, il fatto che la verità sia una proprietà del pensiero non significa che sia da intenderi come mera soggettività (è così invece che è stata intesa da molti dopo Descartes); infatti, il pensiero ha una natura "intenzionale", è relativo alle cose e ordinato a esse: non è mai un "pensiero vuoto", né può essere concepito come un’entità in sé, bensì come un rapporto (adaequatio) tra soggetto e oggetto, tra intellectus e res. Anche Agostino, pur sostenendo enfaticamente nel De vera religione (39, 73) che la verità è nel soggetto ("Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas"), afferma però che questa verità che abita nell’intimo dell’uomo proviene all’uomo dal Verbo eterno di Dio, "luogo" delle "verità eterne" che costituiscono la radice e la norma di ogni altra verità, perché è dal Verbo sono state create tutte le cose e in esse risplende la sapienza divina (cfr De libero arbitrio, II, 15, 39 ss.; vedi in proposito Boyer, 1959). Anselmo d’Aosta, a sua volta, pone ancor più in evidenza, sempre nel solco del neoplatonismo agostiniano, il concetto aristotelico di verità come con-formità (orthotes) del giudizio all’essere o al non-essere della cosa alla quale si riferisce: è la "rectitudo sola mente perceptibilis" (Dialogus de veritate, in Migne, P.L., vol. 159, col. 480).

Di aver raggiunto la verità l’intelletto diventa consapevole –insegna Tommaso d’Aquino, riecheggiando Aristotele – mediante l’atto di giudicare: "L’intelletto che elabora le essenze delle cose non possiede altro che l’immagine delle cose esterne e in questo coincide con il senso, il quale riceve la specie delle cose sensibili. Però quando l’intelletto comincia a formulare giudizi sulle cose apprese, allora inizia a esserci qualcosa che appartiene esclusivamente all’intelletto e che non si trova nelle cose esterne. Pertanto quando ciò che si trova nell’intelletto è conforme a ciò che vi è nelle cose, si dice che il giudizio è vero. Ma l’intelletto giudica della cosa appresa quando dice che qualcosa è oppure non è" (Quaestiones disputatae de veritate, q. 1, a. 3). La nozione di verità come "adaequatio" non presuppone quindi l’idea della conoscenza come "copia" di qualcosa di esterno (questa è l’idea materialistica della conoscenza, presente in Democrito e in Epicuro; la la ritroviamo nella filosofia moderna: è la "copy" di cui parla Hume, o la "Abbild" di cui parla Lenin); presuppone invece la conoscenza come "possesso intenzionale" delle forme proprie dell’oggetto, cui segue la riflessione su questo possesso, la quale sfocia nel giudizio, con l’affermazione di ciò che si è in grado di dire come conosciuto.

Ora, il fatto che l’intelletto diventi consapevole di cogliere la verità nel momento del giudizio, e che il giudizio sia una "decisione", pone in risalto che la verità ha una sua componente volontaristica e quindi anche etica; il soggetto è responsabile di cercare e riconoscere la verità che l’essere delle cose gli consente di acquisire. Allo stesso tempo, questa componente volontaristica ed etica della verità non implica anarchia soggettivistica o delirio di onnipotenza del pensiero, svincolato da ogni legge; al contrario, la "libertà di pensiero" è possibilità di adeguarsi volontariamente, eticamente, alla realtà delle cose, nella quali in definitiva si scorge la sapienza del Creatore: "Veritas invenitur in intellectu secumdum quod apprehendit rem ut est" (Summa theologiae, I, q. 16, art. 1); "Verum est in intellectu secundum quod conformatur rei intellectae" (op. cit, I, q. 1, art. 3). E si noti ancora che Tommaso, nel parlare in questi termini della verità, è ben consapevole di rifarsi alla metafisica aristotelica; la dottrina della verità come "corrispondenza" presuppone infatti la metafisica aristotelica della sostanza, sviluppata da Tommaso nella sua metafisica dell’atto di essere. Come le più redenti acquisizioni della filosofia analitica confermano, il quadro metafisico del realismo classico è l’unico che può rendere intelligibile la nozione di verità come "corripondenza"; essa infatti è intrinsecamente legata alla concezione realistica del pensiero, ossia alla concezione del pensiero come conoscenza; l’immanentismo – ossia la concezione del pensiero come "vuoto" o come attività "costruttiva" - può concepire solo la verità come coerenza.

Dicevo prima che dall’impostazione "rappresentazionistica" cartesiana discende, tra l’altro, il criticismo kantiano. Per rendersene conto basterà citare come Immanuel Kant definisce la verità, che è il tema che qui interessa: "La verità – scrive il filosofo di Königsberg – è la proprietà oggettiva della conoscenza [Erkenntnis], ossia del giudizio mediante il quale qualcosa viene rappresentato come vero" (Critica del giudizio, Ed. Rusconi, Milano 1999, § 66). A Immanuel Kant la nozione di "corrispondenza" arriva già intrinsecamente alterata dal soggettivismo post-cartesiano, del quale non era immune il razionalismo di Christian Wolff; il soggettivismo infatti mette la rappresentazione (che appartiene al soggetto) al posto della cosa conosciuta (che dovrebbe costituire l’altro polo della relazione); e così Kant può ciriticare la nozione di "corrispondenza" rilevandone l’intrinseca contradittorietà: egli infatti definisce la verità come conformità della mente all’oggetto, ossia alla rappresentazione, lasciando la "cosa in sé" al di là della conoscenza (cfr Logik: Akademieausgabe, vol. IX, p. 50). Di conseguenza è vero, come ha scritto il filosofo americano Hilary Putnam, che "Kant è il primo filosofo che abbia rifiutato l’idea di verità come corrispondenza a una realtà pre-strutturata". Ora, però, conviene chiarire – proprio in relazione alla critica della teoria della "adaequatio" fatta da Kant - che la nozione di "corrispondenza" non implica affatto la pretesa (che in effetti sarebbe assurda) che la mente confronti le sue conoscenze con le "cose in sé", ossia con le stesse cose ma ancora non conosciute (o come se non fossero conosciute): evidentemente, ogni operazione della mente è conoscenza, e ogni conoscenza fa sì che la "cosa in sé" diventi una cosa conosciuta, di modo che la cosa in sé e la cosa conosciuta coincidono nel rapporto soggetto/oggetto. La verità non risulta quindi dal confronto tra la propria conoscenza e la realtà immaginata al di fuori della conoscenza (questa idea è la più lontana possibile dalla visione realistica della metafisica classica): la verità risulta piuttosto dal confronto di una data ipotesi di giudizio con i dati effettivamete in possesso del soggetto nel momento in cui si accinge a giudicare. La domanda che il soggetto si pone al momento di appurare la verità è questa: "Che dati ho per poter dire questo? Posso pensare o dire una tal cosa, sulla base di ciò che conosco? Ho tutti gli elementi di giudizio necessari per proncunciarmi?". Come giustamente è stato osservato, "razionalità significa che l’intelligenza umana non solo afferma o nega come stanno le cose, ma essa stessa deve essere in grado di controllare che la sua affermazione o negazione sia vera. L’uomo non solo sa o non sa, ma sa di sapere o di non sapere. […] L’uomo non può mettere a confronto la "realtà conosciuta" con la "raltà in quanto tale" colta attraverso una via diversa dalla conoscenza stessa (siamo alla celebre aporia kantiana), ma la certezza dell’adeguamento tra la nostra conoscenza e la realtà è ottenuta all’interno della conoscenza stessa" (Rodríguez Luño).

In conclusione, quando si parla di verità ci si riferisce principalmente alla verità logica (rettitudine del pensiero nell’esprimere ciò che il soggetto ha effettivamente conosciuto), ma indirettamente ci si riferisce anche al fatto che le cose sono di per sé intelligibili. Detto questo, è evidente che non ha senso parlare di "verità oggettiva" in contrapposizione a "verità soggettiva": la verità è sempre soggettiva e sempre allo stesso tempo oggettiva; essa ha sempre un soggetto che la enuncia, in quanto ritiene che il suo pensiero corrisponda alla realtà, e se un altro soggetto la condivide o esprime il suo dissenso, tale intersoggettività non ha titoli per presentarsi come oggettività. Al posto di "oggettivo" e "soggetttivo", nel senso in cui i termini sono usati nel linguaggio di oggi, bisognerebbe dire soltanto, rispettivamente, "vero" e "falso" , oppure "opinable" e "incontrovertibile". E questo si richiede dai libri di testo: l’onestà intellettuale e il rigore scientifico per cui non si presenta come vero ciò che è artificiosamente costruito dall’autore per difendere posizioni ideologiche, né si presenta come incontrovertibile ciò che è invece opinabile e che di fattto non è condiviso dalla intera comunità di ricerca in quella materia.

[2. La conoscenza storica] Il termine "storia", nato in Grecia per indicare l’osservazione dei fenomeni naturali, indica già dal Medioevo la ricerca degli avvenimenti umani del passato. Ora, occorre distinguere, rispetto agli avvenimenti del passato dell’uomo, la mera conoscenza dei fatti dai tentativi di arrivare a una plausibile interpretazione di essi: questa seconda forma di conoscenza (l’ermeneutica storica, che può anche assumere le forme della filosofia della storia e della teologia della storia) appartiene in pieno alla ricerca della verità attraverso i diversi procedimenti dell’inferenza. La conoscenza storica in senso stretto - che può anche avvalersi di tecniche sofisticate di ricerca e di valutazione dei documenti, presentandosi come una vera e propria "scienza della storia" (storiografia) – si ferma alla prima, indispensabile fase: il rilevamento, per quanto possibile, dei fatti accaduti nel passato; poi verrà, eventualmente, la fase successiva, che è il tentativo di conferire un "senso" a tali fatti. Il tentativo di conferire un senso agli eventi presuppone che gli eventi stessi siano un dato su cui riflettere; e qui mi interessa appunto ricordare quale sia la logica che regola la conoscenza di tali fatti e la trasmissione di questa conoscenza attraverso l’insegnamento.

Il passato – ciò che non è attuale – è metafisicamente escluso da ogni possibile esperienza, essendo l’esperienza legata alla presenza in atto dell’oggetto; il passato è dunque una delle forme del "mistero" naturale che segna confini invalicabili all’esperienza dell’uomo: non nel senso che si tratti sempre e necessariamente di cose inconoscibili, ma nel senso che si tratta sempre e necessariamente di cose conocibili indirettamente, mediante la testimonianza altrui. Certamente, le diverse forme di conoscenza storica (da quella familiare a quella sociale, sia religiosa che politica), compresa la forma "scientifica" della storiogafia (non la filosofia o la teologia della storia) hanno una loro logica che permette di raggiungere ragionevoli certezze, che però non possono essere di ordine fisico né in generale di conoscenza diretta: trattandosi infatti di eventi del passato non meramente fisici (geologici, biologici, astronomici) ma prodotti dall’azione umana, ne consegue che:

  1. essi non possono essere razionalmente dedotti da princìpi metafisici come da cause che producono certi effetti in modo necessario, perché appartengono al dominio della più imprevedible contingenza, quella della libertà umana, che è assolutamente decisiva nell’effettuarsi delle vicende storiche (malgrado il determinismo che nelle vicende umane può essere sempre rilevato, individuando leggi psicologiche e sociologiche di comportamento individuale e collettivo);
  2. di essi, in quanto non più attuali, non resta alcunché di esperibile, salvo ciò che di tali eventi è rimasto come traccia, ossia come riflesso o conseguenza.

Tutte le possibili, ragionevoli certezze riguardo al passato saranno dunque sempre indirette e di ordine morale.

Già nell’epoca dell’Illuminismo gli studiosi avevano formulato con chiarezza il criterio aletico della conoscenza storica: verificare l’attendibilità delle testimonianze, intese come "prove" di ciò che non si può conoscere direttamente perché appartiene al passato. Ma già da allora era ben nota la critica degli scettici (i "pirronici"), divenuti ancora più efficaci nelle loro argomentazioni da quando la filosofia aveva preso la strada del razionalismo cartesiano, circa la possibilità di attingere una qualche certezza fondata quando si tratta di testimonianze relative al passato. La svolta è avvenuto grazie a Giambattista Vico, il quale ha preso appunto la strada del "senso comune" per uscire dal vicolo cieco del razionalismo matematizzante; e Vico non ha solo rivaluto la verità della conoscenza storica (distinguendo tra "vero" e "certo") ma è stato anche il primo epistemologo della verità attraverso la storiografia.

In defintiva, trattandosi di una disciplina scientifica che poggia sulla conoscenza storica, che è fede umana nei testimoni ossia negli autori dei documenti (dopo le necessarie indagini per accertarne la credibilità), la storiografia deve rispettare i limiti strettissimi della verità storica, riferendola senza indebite omissioni e senza ingiuste classificazioni valoriali, e soprattutto distinguendo da essa – dalla verità storica - le interpretazioni opinabili, che non sono mai da imporre come "verità scientifica": non perché siano "soggettive" invece di essere "oggettive" (tanto ogni giudizio è soggettivo e allo stesso tempo oggettivo, l’ho già rilevato), ma perché mancano dei requisiti della verità scientifica, che poi sono gli unici requisiti che l’insegnamento scolastico deve avere e sui quali può esserci accordo tra persone ben intenzionate e capaci di dialogo.