Qualche riflessione sui bombardamenti anti-irakeni
del dicembre 1998

 

Il 3 settembre 1996, in prima serata (secondo le misurazioni cronologiche del Mid-West statunitense), in perfetto orario televisivo (qualcuno si ricorda l’analogo show lungo le coste della Somalia?), giunse notizia del secondo bombardamento statunitense su obiettivi militari irakeni.

Il sottoscritto si trovava ad Ann Arbor, capitale dello Stato nordamericano del Michigan, davanti al televisore con Anthony Thrall Sullivan, del Center for Middle Eastern and North African Studies dell’Università del Michigan, ovvero uno dei massimi autentici esperti del settore. Di orientamento seriamente conservatore, Sullivan è uno dei pochi statunitensi che comprende con esattezza l’importanza del baricentro mediterraneo nella storia della civiltà occidentale. Forse anche per questo è spesso sostanzialmente in rotta di collisione con i politicanti e i "politicastri" del proprio paese, e in disaccordo con pressoché tutte le loro scelte riguardanti il Medio Oriente.

La prima domanda che mi venne da porgli fu: "Perché?" Mi rispose senza esitare: "Siamo agli sgoccioli della campagna elettorale e Clinton gioca tutte le proprie carte". Eravamo appunto nell’estate del 1996, a poche settimane dalle consultazioni che avrebbero riconfermato in carica il presidente Democratico. Confesso di esser rimasto perplesso di fronte a una risposta apparentemente così semplicistica proveniente da un’analista tanto fine e sensibile. E poi, storicamente, nessun candidato presidenziale, forte o debole che sia stato, è mai stato premiato elettoralmente solo dai successi riportati in politica estera. Quattro anni prima George Bush, l’"irakeno", era scivolato proprio su questa buccia di banana. "Se è vero che per l’elettorato i successi in campo internazionale contano poco — spiegò dunque Sullivan in modo più convincente —, la sconfitta riportata da Bush nelle presidenziali del 1992 fu in realtà dovuta al fatto che la vittoria nella Guerra del Golfo era avvenuta troppo presto e all’aver condotto gli ultimi mesi di campagna elettorale da perdente". Sì, ma al tempo Clinton giocò a fare il moderato improvvisando toni quasi "isolazionistici"… Possibile che nessuno si sia ricordato della precedente sfida elettorale? "Non solo è possibile — mi disse al tempo l’esperto statunitense —, ma addirittura un fatto certo. Il pubblico non si ricorda quanto è avvenuto pochi mesi fa: figuriamoci se è in grado di tornare con la memoria indietro di quattro anni. Nel 1992, all’inizio di novembre, nessuno si ricordava più del "Bush trionfatore", così come oggi [riporto sempre le parole pronunciate da Sullivan nel settembre 1996] nessuno si ricorda dell’effetto boomerang di quel successo militare".

Dunque solo questione elettorale? Non c’entrava il petrolio? Magari, come sempre, con lo zampino britannico? Al tempo, Sullivan sorrise sornione a questi miei pensieri proferiti ad alta voce; mi fissò e sussurrò: "Perfida Albione, etc. etc.?". Poi si fece subito serio: "Il fatto è che la gente, quando vota, è interessata solo alla questioni fiscali. Fra qualche settimana Clinton cercherà di sbandierare ai quattro venti la sua politica di "difesa del contribuente", che so magari reclamizzando il contenimento del prezzo della benzina a spese dell’Irak". C’è altro, chiesi all’epoca? "Certo. Da qualche anno, i cosiddetti "nuovi Democratici" alla Clinton stanno mostrando di essere sostanzialmente dei deboli: così il presidente sembra voler ora tentare un’altra carta, quasi dicendo "ehilà, anche noi Democratici siamo "duri" come qualsiasi Repubblicano alla Bob Dole o alla Newt Gingrich". E via missili sull’Irak".

Discorrendo con l’analista e studioso nordamericano mi ricordai d’un tratto che lo "scandalo Whitewater" avrebbe potuto consumare i suoi ultimi istanti proprio alla vigilia del voto del novembre 1996: nel caso di mal parata, Clinton avrebbe avuto certo bisogno di una nuova immagine pubblica. È per questo che, di fronte agli scandali da camera da letto (o da scrivania d’ufficio) del poco augusto inquilino della Casa Bianca e all’improvvisa, assai enigmatica, recreduscente bellicosità nei confronti di Saddam Hussein, ho ritenuto opportuno recuperare il colloquio avuto con Sullivan.

In quell’alba di settembre di più di due anni fa, al cattedratico statunitense chiesi anche se del dissidio USA-Irak non esistessero pure ragioni più profonde. Ed egli snocciolò: "Recentemente William Kristol (figlio del noto commentatore neoconservatore Irving Kristol), figura di primo piano fra i "nuovi Repubblicani", s’interrogava sulle pagine di Foreign Affairs, pubblicazione del Council on Foreign Affairs — su come promuovere all’estero i "valori americani". È questo il termine che usano: "valori". A parte il fatto che vien da chiedersi "quali valori" in un paese con i più alti tassi di suicidi, di criminalità, di tossicodipendenza e così via, la questione vera suona invece così: "Cerchiamo un modo efficace per imporre il modello democratico nordamericano a tutto il mondo", o qualcosa di molto simile. Beh, c’è quantomeno da aspettarsi che tutti coloro che non sono cittadini statunitensi si ribellino immediatamente...".

Interessante combinazione: i consiglieri democratici liberal del presidente e i falchi del neoconservatorismo centrista (spesso progressisti travestiti, ben distanti dal più autentico conservatorismo culturale e filosofico statunitense), tenuti assieme dal collante imperialistico, democraticistico e al fondo secolaristico della "nuova crociata" tanto "americanista", quanto poco autenticamente americana.

L’articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite prevede l’intervento armato per sedare questioni interne a un paese solo nel caso che tali problemi domestici mettano a rischio i confini con altri Stati; secondo questo principio (evidentemente manipolabile con facilità, a insindacabile decisione di chi detiene le leve del potere ONU et similia), la Repubblica del Sudafrica venne colpita con sanzioni internazionali per una questione di sola politica interna. La sovranità degli Stati appare dunque de facto un capitolo chiuso. In questo modo, clintoniani liberal e "neoconservatori" senza pelo sullo stomaco giocano pesante: Bond, il mio nome è James Bond. Altrettanto grotteschi, assurdi e crudeli come Una cascata di diamanti, non condividono però la pesante e dunque simpatica autoironia della famosa pellicola dell’agente 007 creato da Ian Fleming. Anzi: per i mercanti di popoli la seriosità cinica è d’obbligo.

Oggi i "duri" Dole e Gingrich non ci sono più; i falchi si chiamano William Cohen, come il ministro statunitense della Difesa, o Madeleine Albright, come il Segretario di Stato che pure a volte ama mascherarsi sotto i panni di colomba. (Nota a margine: alla Giustizia c’è sempre Janet Reno, neanche un falco, ma un avvoltoio sempre forte con i deboli e debole con i forti proprio come il volatile conosciuto non proprio per il suo coraggio che ho scelto per rappresentarla). Nell’area mediorientale i "nuovi duri" statunitensi hanno qualche amico recente fra i palestinesi e vecchie conoscenze oggi un po’ più fredde (nonché in caduta libera) in Benjamin Netaniahu. Il capitolo Siria-Libano è stato definitivamente chiuso qualche anno fa con la svendita del secondo alla prima in cambio di appoggi anti-irakeni. L’Arabia Saudita e gli Emirati circostanti sono validi alleati che chiamano il colosso americano in aiuto quando ce n’è bisogno, ma che prontamente sbeffeggiano i servicemen impedendo loro (successe durante la Guerra del Golfo) di celebrare i riti religiosi cristiani per il Natale sulla terra calpestata dal Profeta. E Clinton è sempre lo stesso presidente di nessuno (viste le percentuali elettorali) alle prese con la questione della propria immagine pubblica, oggi alla vigilia della probabile messa in stato d’accusa da parte del Congresso non tanto per l’affaire Monica, quanto per aver pubblicamente spergiurato e mentito alla nazione in più occasioni: come fidarsi di lui quando, in televisione a tarda notte, mentre il cielo di Baghdad si arrossa di fiamme, afferma di voler solo punire i "cattivi" ovunque si trovino nel mondo? Cosa sia successo in Sudan e in Afghanistan in occasione dei recenti bombardamenti antiterroristici (ma con il governo filoterrorista siriano si è scesi a patti qualche anno fa) non lo si sa ancora in maniera chiara, precisa e ufficiale…

Se Saddam Hussein è davvero quel "cattivone" che i servizi speciali, gl’inviati, le schede dei telegiornali ci dipingono a ogni piè sospinto per convincerci che sia giusto che qualcuno pensi a fermarlo per il bene della comunità internazionale (e a onor del vero c’è più di una ragione per credervi), oggi dopo la Guerra Fredda che ha lasciato da un lato un Occidente più o meno omogeneo pur nelle sue mille angustie e dall’altro un mondo nebuloso, agitato, potenzialmente pericolosissimo, non è un’idea completamente priva di fondamento né tantomeno di senso. Ma se il raìs irakeno è davvero quel tiranno che i media additano (durante la Guerra del Golfo si tirò persino in ballo la storia che lui o i suoi parenti fossero stati stregati dal carisma di Adolf Hitler e che il futuro "ladro di Baghdad" fosse stato allevato nel culto della potenza militare), i "gendarmi del mondo" che gli si oppongono a suon di megatoni potrebbero finire per essere solamente la risposta uguale e contraria al male oggettivo che va combattuto. In tesi non è affatto errata l’idea di un’autorità (il cui altro nome è legittimamente potenza) sovranazionale che, in base a norme chiare e certe di diritto internazionale (peraltro figlie, come sempre, di una cultura specifica, quindi ben precisa esperienza giuridica riflettente una altrettanto ben precisa esperienza comune, come direbbe il vocabolario concettuale della scuola storica del diritto), ponga dei "paletti" alla vita del consorzio delle nazioni, così come ogni nazione li pone alla vita organizzata dei singoli, delle famiglie e delle famiglie di famiglie. Ma proprio come le singole nazioni possono tralignare e vessare, invece che tutelare, i propri cittadini e le loro libere e naturali associazioni, così può fare l’autorità sovranazionale rispetto al consorzio delle genti figlie di una cultura omogenea (per le quali vigono dunque norme di diritto internazionale comuni) e rispetto ai loro antagonisti. Gli Stati Uniti d’America di oggi — gli Stati Uniti d’America dopo la Guerra Civile e la cosiddetta "Ricostruzione" (1865-1877), dopo le "crociate" democraticistiche di Woodrow Wilson e di Franklin Delano Roosevelt, dopo e durante l’egemonia liberal immemore persino della più autentica identità della nazione nordamericana — sono in grado di essere autorità e non solo poliziotto?

Mi sovviene in chiusura il titolo di una raccolta di saggi scritti da autori "agrari" sudisti nordamericani e da distributivisti britannici, pubblicata nel 1936: Who Owns America?, chi possiede davvero questo paese dalle mille speranze e dalle molteplici contraddizioni? Stando alle figure e ai figuri che ne costellano la vita politica e la vita culturale "ufficiale" (cioè da parata) non sono certo i cittadini statunitensi. Quelli veri intendo. Appuntamento al prossimo bombardamento.

 

Marco Respinti

 

[Versione originale dell’articolo pubblicato con il titolo redazionale
Bombe sull’Iraq per convincere l’America
in © Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLVIII, n. 1, del 2-1-1999, p. 6]