Uomini e cose della vecchia Italia

  Ciò che impedisce la giustizia e la moralità sociale sono i partiti politici.
Ecco il verme che rode la società, che confonde le previsioni dei filosofi,
che rende vane le più belle teorie.
[...]
Col vocabolo di partito politico noi significhiamo
un certo numero d'uomini che si associano espressamente o tacitamente
per influire sulla società e farla servire al proprio vantaggio.
Il partito ha per iscopo il proprio vantaggio, non la giustizia, la equità, la virtù morale.
Partito adunque ed equità, giustizia e virtù morale sono cose opposte.
Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), Filosofia della politica, 2a ed. 1858

Prima di ogni riforma amministrativa e politica occorre una riforma morale.
È tempo di spezzare questa catena di ferro che lega elettori e deputati a ministri,
che corrompe l'esercizio del più sacro dovere,
e cancella il sentimento della patria comune
Marco Minghetti (1818-1886), discorso del 3 marzo 1886

 

 

Qu'est-ce que le "transformisme"?
Un male insito nel parlamentarismo e nella democrazia? Un'abile tecnica di governo tesa semplicemente a garantire la stabilità dell'esecutivo? Un malcostume tutto italiano? Il tradimento degli elettori? Il frutto del prevalere della società civile e dei suoi ceti dominanti sul sistema politico, nonché il segno tangibile della debolezza delle classi politiche dell'epoca democratica, come vuole Gaetano Mosca (1858-1941) in Teorica dei governi del 1884 e come sembra ribadire - con sensibilità analoghe e al contempo differenti - il politologo contemporaneo ungherese-americano Thomas Molnar impegnato nella riflessione sul senso delle rivoluzioni?
E ancora: un fenomeno di ieri o una sorprendente attualità politica?
Spetta forse alla ricostruzione storica il compito d'iniziare a delineare linee di risposta.

 

1. L'Italia unificata

A Torino, il 17 marzo 1861 il parlamento piemontese proclama il regno d'Italia, da cui sono esclusi il Veneto, in mano alla corona austro-ungarica, e il Lazio, su cui regna il pontefice. Ha così inizio la fase finale dell'unificazione politica della penisola italiana, costruita - a volte anche in maniera remota - attraverso la lunga e complessa serie di vicende politiche, culturali e militari del cosiddetto "Risorgimento"; incubata negli anni compresi grosso modo fra il Congresso di Vienna (novembre 1814-9 giugno 1815) e il "fatidico 1848"; nonché poggiante - seppur in maniera ideale, indiretta, a volte confusa e spesso solo sintomatica - sulla stagione della "Rivoluzione di Francia in Italia". In quest'ultimo periodo si distinguono in modo particole alcuni momenti-scenario. Le campagne napoleoniche dal 1796 al 1814. Il cosiddetto "Triennio giacobino" che vede la nascita delle "repubbliche sorelle" ispirate al giacobinismo d'Oltralpe (1796-1799), fra cui la Repubblica Cispadana (poi unita alla Repubblica Cisalpina il 27 luglio 1797) che, costituita il 27 dicembre 1796 a Reggio Emilia, il 7 gennaio seguente assume il tricolore come bandiera nazionale per iniziativa dell'ex sacerdote Giuseppe Compagnoni (1754-1833), segretario generale della Confederazione cispadana e deputato per Ferrara appunto al Congresso costitutivo di Reggio. La proclamazione, a Milano il 14 febbraio 1802, della Repubblica Italiana con Napoleone Bonaparte (1769-1821) come presidente, a conclusione dei laboriosi, lunghi e contestati lavori che si svolgono a Lione dall'11 dicembre 1801 al 9 gennaio 1802 con l'obiettivo di trasformare la Cisalpina, di approvare la Costituzione e di designare la presidenza: a Lione per tenersi "lontani dagli intrighi" italiani, dice il milanese Francesco Melzi d'Eril (1753-1816), che presto - avendo declinato la massima carica a favore di Napoleone come pure fa il bolognese Antonio Aldini (1755-1826), fervido propugnatore dell'unità italiana - sarà vicepresidente della Repubblica. L'annessione alla Francia del Piemonte l'11 settembre 1802, di Genova il 30 giugno 1805 e della Toscana il 27 novembre 1807. E l'autoincoronazione, nel Duomo di Milano il 26 maggio 1805, di Bonaparte - console a vita dal maggio 1802 e Imperatore dei francesi con il nome di Napoleone I dal 18 maggio 1804 -, il quale trasforma la Repubblica Italiana "di Lione" in Regno d'Italia. Ma torniamo al Risorgimento.

Dopo la proclamazione del regno nel 1861, il completamento dell'unificazione italiana dovrà attendere quasi un decennio: avrà luogo il 20 settembre 1870 con la "breccia di Porta Pia", cioè con l'ingresso delle truppe italiane in Roma, capitale degli Stati pontifici, che apre la cosiddetta "Questione romana" (chiusa solo con la Conciliazione dell'11 febbraio 1929) e che comporta l'astensione dei cattolici dalla vita politica italiana fino alle elezioni del 26 ottobre e del 2 novembre 1913 segnate dal cosiddetto "Patto Gentiloni" (dal nome del conte Vincenzo Ottorino Gentiloni [1865-1916], artefice degli accordi elettorali clerico-moderati in funzione antisocialista); quindi con il trasferimento della capitale del nuovo Stato unitario da Firenze (1865-1870, dopo Torino capitale) appunto alla Città Eterna il 1° luglio 1871.

Il consolidamento e il radicamento popolare e culturale di quanto ottenuto con il Risorgimento e con l'unificazione si protrae poi per lungo tempo attraverso le stagioni di governo prima della cosiddetta "Destra storica", quindi della Sinistra liberale; l'"età crispina" e l'"età giolittiana"; la prima guerra mondiale - per molti versi vero e proprio coronamento del Risorgimento -; e per vie diverse, nonché in certa misura paradossali in ragione della negazione della seconda rispetto al primo, con il ventennio fascista - per esempio, nella misura in cui il filosofo neohegeliano Giovanni Gentile (1875-1944) vede nel fascismo l'inveramento della filosofia risorgimentale - e con la cosiddetta "Resistenza", che, sovente definita "secondo Risorgimento", costituisce il luogo di nascita dell'Italia repubblicana.

 

2. Elementi di quadro dell'Italia postunitaria

2.1 Una delle problematiche che più angustiano l'Italia postunitaria è la cosiddetta "Questione meridionale": fra Nord e Sud, prevalentemente agricolo, esiste un fortissimo squilibrio economico e industriale; per molti versi il Settentrione considera il Meridione solo una terra da depredare in mille maniere; e il Mezzogiorno fatica, stenta o addirittura rifiuta d'integrarsi nello Stato italiano. La proclamazione del regno d'Italia ha aperto anche la piaga del brigantaggio filoborbonico, intenzionato a difendere e poi a ripristinare il governo della dinastie spodestate dai garibaldini e dall'esercito italiano, che si affianca e si sovrappone al fenomeno del legittimismo controrivoluzionario e alla tutela del papato. Il brigantaggio meridionale è dunque fatto oggetto di una sanguinosa repressione che configura, almeno fino al 1865, ma con importanti strascichi fino al 1870, quella "conquista del Sud" di cui hanno trattato per esempio lo storico e romanziere Carlo Alianello (1901-1981) e il magistrato, studioso dell'Insorgenza, Francesco Mario Agnoli, il primo autore de La conquista del Sud. Il Risorgimento nell'Italia meridionale (3a ed. Rusconi, Milano 1994 [1a 1972]) e il secondo, anche su suo modello, de La conquista del Sud e il generale spagnolo José Borges (Di Giovanni, Milano 1994). Il tributo di sangue chiesto da questo scontro durissimo è superiore, come numero di vittime, a quello complessivo delle tre guerre d'indipendenza, combattute dal Piemonte e poi dall'Italia contro l'Austria nel 1849, nel 1859 e nel 1866.

2.2 Lo scontro frontale con la Chiesa cattolica è l'altra grande ferita provocata dall'unificazione liberale e anticlericale della penisola. Ne è segno evidente il Sillabo degli errori del nostro tempo, ovvero le 80 tesi - molte delle quali chiamanti in causa la mentalità filosofica e l'azione politica che hanno accompagnato il Risorgimento e l'unificazione - poste in appendice all'enciclica Quanta cura, promulgata l'8 dicembre 1864 da Papa Pio IX (1792-1878), e la contrapposizione netta fra ceti dirigenti e intransigentismo cattolico che caratterizza la fine del secolo XIX e l'inizio del XX.

Il 2 maggio 1871 il Senato approva a larga maggioranza la legge delle guarentigie, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale il 15 successivo e respinta, il medesimo giorno, da Papa Pio IX con l'enciclica Ubi nos. Si tratta di una misura tesa a realizzare il programma cavouriano della separazione fra Chiesa e Stato in due organismi indipendenti: il governo italiano offre al papato garanzie di libertà, che promanano però da una concessione e che di fatto prevedono il riconoscimento dello Stato unitario da parte della Santa Sede. Benché né Pio XI né i suoi successori l'accettino, la legge viene di fatto messa in pratica dallo Stato italiano, che rispetta così l'assoluta indipendenza di azione spirituale del pontefice.

Momenti forti dell'azione sociale organizzata dei cattolici sono comunque la fondazione dell'Opera dei Congressi avvenuta nel corso dei lavori del primo convegno nazionale dell'associazionismo cattolico, svoltosi a Venezia dal 12 al 16 giugno 1874, e poi, in maniera stabilmente duratura, nel corso del secondo convegno tenutosi a Firenze dal 22 al 26 settembre 1875. L'Opera viene sciolta poi il 28 luglio 1904, a eccezione della sua II sezione che continua con il nome di Unione Economico-Sociale dei Cattolici Italiani. Al suo fianco viene quindi creata la UECI, Unione Elettorale Cattolica Italiana, che grande parte avrà nella preparazione degli accordi elettorali clerico-moderati del 1913, e l'Unione Popolare tra i Cattolici d'Italia.

2.3 Fra gli anni Settanta e Novanta anche il movimento operaio, fra socialismo e anarchismo, si organizza e insidia da sinistra tanto i governi della Destra, quanto quelli della Sinistra storiche. Nel 1864 a Londra viene fondata l'Associazione Internazionale dei Lavoratori, più tardi nota come Ia Internazionale, che ha il suo apogeo fra 1868 e 1869. La IIa Internazionale nasce a Parigi nel 1889 e, a partire dal 1871, ottiene rapida diffusione anche in Italia: se le società operaie seguono gli ideali mazziniani, le sezioni italiane dell'Internazionale vengono guidate da Carlo Cafiero sulle sponde del pensiero anarchico propugnato da Michail Aleksandrovic Bakunin (1814-1876).

Il 14 e 15 agosto 1892 viene fondato, a Genova, il Partito dei lavoratori (dal 1895 Partito socialista dei lavoratori italiani): è il segno della scissione dei socialisti dagli anarco-operaisti e quello dell'incontro fra socialisti ed elementi mazziniani emiliano-romagnoli. Sotto la guida di Filippo Turati (1857-1932) e Anna Michajlovna Kulisciov (1857-1925), il Partito socialista assume connotati genericamente marxisti.

2.4 Nel corso della terza guerra d'indipendenza, nel 1866 - anno in cui il governo unitario, come già prima quello piemontese, sopprime diversi ordini religiosi confiscandone i beni fondiari poi venduti ai privati - l'Italia viene sconfitta il 24 giugno a Custoza e il 20 luglio a Lissa dagli austriaci: ma, alleata della Prussia vittoriosa contro l'Austria, riesce a ottenere la sovranità sul Veneto a esclusione però delle città di Trento e di Trieste. E proprio sull'irredentismo legato a queste due città-simbolo giocheranno i democratici in un clima globale di crescente antiparlamentarismo e di desiderio di ritorno al regime dello Statuto detto "albertino", promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto (1768-1849), re di Sardegna: accarezza questa prospettiva re Vittorio Emanuele II (1820-1878) di Savoia, scontento dell'assetto istituzionale cavouriano-romano che impone ai ministri di rispondere al parlamento invece che al sovrano, come invece avveniva appunto nel 1848 (d'altra parte, Vittorio Emanuele II gode di un certo favore dei liberali radicali che ne apprezzano alcune inclinazioni politiche). Peraltro, se il sentimento antiparlamentare rivolge spesso le proprie attenzioni alla Francia dell'imperatore Napoleone III (1808-1873), esso non ha alcuna possibilità d'imitarne concretamente l'azione: infatti, manca il necessario appoggio dell'esercito - quello italiano è stato screditato sui campi di battaglia del 1866 - e manca quel popolo, assente dal Risorgimento e distaccato dai vertici dell'Italia postunitaria, che è invece necessario per qualsivoglia svolta populistico-plebiscitaria.

2.5 Negli anni compresi fra il 1866 e il 1870, il paese attraversa gravi difficoltà economiche, poi sostanzialmente risoltesi grazie alla grande svolta mondiale del periodo 1870-1873 i cui effetti si fanno sentire anche in Italia, nonché all'azione risparmiatrice della Destra storica: nel 1866 le entrate effettive coprono infatti solo i tre quarti delle uscite, che sono in forte e in continuo aumento, e a questa situazione si fa fronte con l'emissione di prestiti per due quinti indirizzati ai già sconvolti mercati borsistici europei. Il 12 dicembre 1871 il ministro delle finanze Quintino Sella espone la situazione finanziaria del regno e lancia il programma delle "economie fino all'osso", consistente in un enorme progetto di risanamento che colmi i 200 milioni di lire di disavanzo statale (accumulato nei dieci anni precedenti a causa della crescita delle strutture del paese) attraverso entrate in ragione di un miliardo l'anno per i successivi cinque; esclusa è la possibilità di abolire la contestata (dai ceti rurali vessati) tassa sulla macinazione dei cereali (promulgata il 7 luglio 1868), che nello stesso 1871 assicura all'erario più di 46 milioni. L'opera di salvataggio del bilancio nazionale viene dunque alacremente svolta da Giovanni Lanza (1810-1882) e da Marco Minghetti (1818-1886), ministri della Destra: Minghetti ne ottiene il pareggio nel 1876.

 

3. I garibaldini, i moderati e il governo della "Destra storica"

3.1 Il ceto politico dirigente e i governi dell'Italia postunitaria, nel periodo compreso fra il 1861 e il 1876, sono dominati dagli esponenti della cosiddetta "Destra storica", ovvero dai "moderati" liberali eredi del pensiero e dell'azione politica del torinese Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), modernizzatore del Piemonte, catalizzatore di esponenti della nobiltà e della borghesia animati dal principio unitario e dal liberalismo, dominatore della scena politica piemontese negli anni Cinquanta del secolo XIX e - con l'appoggio di Casa Savoia - grande artefice dell'unificazione italiana secondo progetti alternativi a quelli mazziniano-repubblicano-democratici e garibaldino-socialisti.

3.2 Per il risorgimentalismo "di sinistra" sono momenti di forte richiamo ideale la Repubblica romana, instaurata con l'occupazione della Città Eterna dal 9 febbraio al luglio 1849, e l'approvazione della sua Costituzione il 1° luglio. Retta a partire dal 29 marzo da un triumvirato composto da Giuseppe Mazzini (1805-1872), Carlo Armellini (1777-1863) e Aurelio Saffi (1819-1890), la Repubblica romana vede Garibaldi a capo dell'esercito.

Peraltro, i democratici, organizzati in circoli, controllavano il movimento unitario sin dalla crisi dei moderati seguita alla sconfitta di Custoza avvenuta il 24-25 luglio 1848, nel corso della prima guerra d'indipendenza, e alla firma dell'armistizio, a Milano il 5 agosto, fra l'Austria e il re di Sardegna. Al potere a Firenze, a Roma e a Venezia nel 1849, il movimento democratico presenta diverse anime, come testimoniano esponenti di punta del suo mondo quali il monarchico Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), il socialista Giuseppe Montanelli (1813-1862), il mazziniano Gustavo Modena (1803-1861), e il socialista Antonio Mordini (1819-1902). Fra essi si distingue anche Daniele Manin (1804-1857), arroccato su posizioni di stretto irredentismo veneto. Nel panorama variegato del movimento democratico vengono poi affermandosi - in contrapposizione a quello che sarà il moderatismo cavouriano, antesignano della Destra storica - i repubblicani, galvanizzati dai successi ottenuti dai democratici contro, da un lato il progetto neoguelfo d'impronta cattolico liberale in cui, come pensava il filosofo Vincenzo Gioberti (1801-1852), il pontefice avrebbe dovuto guidare un'Italia federata e promuovere il principio di nazionalità, dall'altro l'ipotesi di una Lega degli Stati italiani accarezzata dai principi delle case regnanti.

3.3 Giuseppe Garibaldi (1807-1882) guida il 5 maggio 1860 la spedizione detta "dei Mille" che da Quarto, in Liguria, porta l'11 maggio a Marsala, in Sicilia, forze armate volontarie con il compito di conquistare l'Italia Meridionale - inquadrata nel Regno delle Due Sicilie, retto dalla dinastia dei Borbone -: l'obiettivo viene raggiunto con una serie di campagne militari intraprese da maggio a settembre. Giunto il 7 settembre a Napoli, e intenzionato a proseguire fino a Roma, Garibaldi viene fermato da Cavour (che lo giudica uno scomodo alleato della causa nazionale), il quale riesce ad esautorare e a sciogliere l'esercito volontario formatosi al suo seguito nel Sud. Garibaldi, infatti, erede in parte degli ideali mazziniani dell'effimera Repubblica romana, è il rappresentante di quel mondo che, in contrasto alla linea cavouriana di estensione delle istituzioni - monarchiche - piemontesi al resto dell'Italia, auspica un'assemblea costituente che, eletta da popolo, decida se il nuovo Stato unitario debba essere regno o repubblica. Un uomo, dunque, che riconosce solo parzialmente la legittimità dello Stato italiano monarchico e che preme - contro la linea d'intesa nella separazione auspicata da Cavour ("libera Chiesa in libero Stato"), il quale in questo modo ha peraltro buon gioco, anche proponendosi come difensore del papato minacciato dalle forze della sinistra garibaldina, nell'ottenere l'occupazione militare dei territori pontifici di Emilia, Romagna, Marche e Umbria - per conquistare immediatamente la Roma pontificia.

3.4 Come il progetto cavouriano era stato quello di unificare la penisola "dall'alto", attraverso l'estensione e la formalizzazione dell'influenza piemontese-sabauda, il programma di governo della Destra storica dopo l'unificazione è quello di modernizzare "dall'alto" il paese e la società: con questo orizzonte i moderati eredi di Cavour governano ininterrottamente l'Italia dal 1861 al 1876.

Spesso di estrazione culturale cattolica, nonché sovente appartenenti al ceto della proprietà terriera benestante, gli esponenti della Destra liberale moderata rispondono ai nomi di Marco Minghetti, del barone Bettino Ricasoli (1809-1880), di Emilio Visconti-Venosta (1829-1914), di Costantino Nigra (1828-1907), di Giovanni Lanza, di Quintino Sella (1827-1884) e di Silvio Spaventa (1822-1893); tutti uomini che, secondo Benedetto Croce (1866-1952), appartengono a "una aristocrazia spirituale", "gentiluomini e galantuomini di piena lealtà" che "di rado un popolo ebbe a capo della cosa pubblica".

Per la Destra storica il modello di riferimento è la tradizione costituzionale e giuridica inglese e britannica, il liberalismo classico anglosassone, il decentramento e l'antidirigismo statale, quest'ultimo spesso però tradito nella pratica. In questo e nel "riferimento inglese" si distingue, per esempio, Minghetti, il "padre della Destra storica" influenzato dal pensiero di don Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e di Charles Forbes conte di Montalembert (1810-1870), che, secondo Federico Chabod (1901-1960), è "la principale figura della parte moderata". Il 1° novembre 1860 Minghetti viene nominato ministro degli interni del governo cavouriano che attraversa la creazione del regno d'Italia: appena dopo il plebiscito sull'annessione dell'Italia Meridionale al Piemonte del 21 ottobre e appena prima di quello sull'annessione delle Marche e dell'Umbria del 4 novembre, avvenimenti che, indetti con una decisione del Parlamento torinese l'11 ottobre precedente, sanciscono il trionfo della linea unitaria cavouriana e la sconfitta delle aspirazioni dei democratici e del Partito d'Azione. Scomparso Cavour, Minghetti rimane agli Interni con il gabinetto Ricasoli fino al 1° settembre 1861; diviene ministro delle Finanze con Luigi Carlo Farini (1812-1866); poi, succedendo appunto a Farini, è presidente del Consiglio dei ministri dal 22 marzo 1863 al settembre 1864; quindi, con il gabinetto del conte Luigi Federico Menabrea (1809-1896), ministro dell'agricoltura dal maggio al 14 dicembre 1869; ancora ministro plenipotenziario a Vienna dal 24 agosto 1870 al 10 luglio 1873; infine, succedendo a Lanza dimessosi il 26 giugno, presidente del Consiglio dei ministri (e ministro delle finanze) dal 10 luglio 1873 al 1876. Fra le numerose opere scritte da Minghetti, degno di nota è il volume I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione, pubblicato nel 1881. Convinto che l'unità italiana debba raggiungersi attraverso la diplomazia e non con il metodo dei complotti e delle rivoluzioni, si scontra con Agostino Depretis (1813-1887), leader della Sinistra storica, e si adopera per un decisivo decentramento amministrativo della regioni italiane.

Il governo moderato, però, stretto fra - come vennero chiamati - "rossi" a sinistra (i democratici) e "neri" a destra (i cattolici intransigenti), conta su un appoggio molto ridotto in un'epoca in cui la legislazione elettorale, ereditata dal Piemonte del 1848, è tale per cui, dopo l'unificazione, solo il 2% circa della popolazione ha diritto al voto, con un afflusso effettivo di circa la metà, ovvero grosso modo di 200.000 persone.

 

4. La Sinistra al potere.

4.1 L'8 e il 15 novembre 1874 si svolgono le elezioni politiche generali. I moderati conservano la maggioranza parlamentare, ma perdono 30 seggi a favore dell'opposizione di sinistra.

In un discorso pubblico pronunciato a Stradella, in provincia di Pavia, Depretis espone le linee programmatiche di un futuro governo della Sinistra, che, fra altro, prevede l'istruzione elementare laica obbligatoria e gratuita per tutti, l'allargamento del suffragio, e una nuova distribuzione della spesa pubblica. Il 15 marzo 1875 Minghetti espone alla Camera il bilancio per l'anno 1875 che, avendo seguito per anni il rigido programma di risparmio indicato da Sella, risulta di fatto pareggiato.

Il 18 marzo 1876 il governo Minghetti, annunciato il pareggio del bilancio, si oppone all'immediata discussione alla Camera di una mozione sull'imposta sul macinato e viene messo in minoranza dalla Sinistra, che ottiene 242 voti contro gli 81 degli avversari. Si attua, dunque, quella che gli storici definiscono la "rivoluzione parlamentare": il governo è costretto alle dimissioni e il re affida la formazione del nuovo gabinetto a Depretis. Il governo nasce il 25 del mese: Depretis è primo ministro e ministro delle finanze, come già Minghetti prima di lui. Da questo momento, la Sinistra rimane ininterrottamente al potere fino al 1896, guidata da Depretis prima e da Francesco Crispi (1818-1901) poi. Questi - fervente ammiratore della Rivoluzione di Francia del 1789, noto anticlericale, già cospiratore mazziniano e poi collaboratore di Garibaldi dopo la spedizione dei Mille (che sollecitò e che favorì), poi deputato per la sinistra, infine esponente della sinistra moderata e democratico monarchico - guida il governo italiano (con una sola breve interruzione di nuovo a favore di Depretis) dal 1877 al 5 marzo 1896. Si dimette, infatti, dopo la rovinosa sconfitta dell'esercito regio riportata ad Adua il 1° marzo 1896 a opera di Menelik (1844-1913), imperatore d'Etiopia.

4.2 La Sinistra di governo del 1876 è composta da deputati democratici che hanno accettato la monarchia e da rappresentanti d'interessi locali, soprattutto del Meridione, che considerano quella della Destra una vera e propria dittatura. Il primo esecutivo guidato da Depretis sorge però con il concorso di una parte dei moderati: soprattutto di un gruppo di fiorentini al seguito di Ubaldino Peruzzi (1822-1891), spalleggiati da grandi interessi finanziari italiani e francesi contrari alla statalizzazione delle ferrovie proposta da Spaventa.

È questo l'inizio della pratica parlamentare detta del "trasformismo". La sua formulazione viene peraltro fatta apertis verbis da Depretis in un discorso tenuto a Stradella l'8 ottobre 1882: e di lì a poco, il 22 del mese, si svolgono le lezioni a suffragio allargato che di fatto ne sanciscono la pratica. La Sinistra al potere modifica, infatti, la legge elettorale ampliando il suffragio e dando così corpo all'idea del voto come diritto personale naturale, dunque come diritto potenzialmente universale, in contrasto alla concezione di esso come funzionale alla proprietà che ne ha la Destra. Da questo momento la sinistra depretisiana privilegia il "trasformismo" rispetto all'idea di "rivoluzione parlamentare" proposta nel 1875: e il "trasformismo" premia la Sinistra. Alle consultazioni del 1882 vota il 60,7% degli aventi diritto, Giolitti viene eletto deputato per la prima volta e l'estrema sinistra radicale raddoppia il numero dei propri deputati, ottenendo una quarantina di seggi parlamentari.

Al "trasformismo" si opporranno comunque nel 1883 il ministro della giustizia Giuseppe Zanardelli (1826-1903) e il ministro dei lavori pubblici Alfredo Baccarini (1826-1890), entrambi dimissionari alla vigilia della formazione del V governo Depretis il 25 maggio; poi il deputato di estrema sinistra Felice Cavallotti (1842-1898), che si distingue da altri radicali come Agostino Bertani (1812-1886) disposti invece ad appoggiare Depretis; quindi l'effimero Fascio della democrazia, costituitosi a Bologna l'8 agosto durante un congresso dei radicali a cui partecipano numerosi esponenti repubblicani e socialisti: lo guidano Cavallotti, Giovanni Bovio (1841-1903) e Andrea Costa (1851-1910), primo deputato socialista al parlamento, eletto a Ravenna nella consultazione "del trasformismo" del 22 ottobre 1882.

È con Depretis, dunque, che viene praticamente "istituzionalizzata" la tecnica del "trasformismo", consistente nell'ammettere nella maggioranza parlamentare di governo il più alto numero possibile di deputati e ignorando gli schieramenti politico-partitici di destra e di sinistra; spesso, peraltro, questi appoggi all'esecutivo vengono comperati attraverso l'elargizione di favori ai diretti interessati o ai loro clientes. Più che la stabilità del governo è la permanenza al potere - al di là del voto espresso dagli elettori, nonché delle idealità e delle finalità politiche - il risultano ottenuto in questo modo dalla Sinistra depretisiana, ma poi anche crispina: Crispi, infatti, già avversario del trasformismo di Depretis, accetta di diventarne ministro degli interni nel 1877 e, a parte una pausa di nove mesi per uno scandalo di bigamia, fino al 1887. In quest'anno, dopo la scomparsa di Depretis, Crispi diviene dunque il secondo leader della Sinistra storica a guidare un governo italiano, peraltro attraverso un trasformismo ancora più accentuato. Maggioranze di questo tipo, comunque, rimangono assai deboli nella misura in cui sono raccogliticce, dunque esposte al facile rischio del tiro incrociato di questo o di quel gruppo di deputati o di singoli parlamentari scontentati da una determinata azione di governo.

Tanto quanto - a detta degli studiosi - la stagione della Destra storica è stata nel complesso contrassegnata da limpidezza morale e intellettuale, l'ascesa al potere della Sinistra inaugura una generale involuzione del costume, della cultura e della politica. Infatti, definito personalmente ineccepibile dal punto di vista morale, Depretis fa però ampio uso, per le ragioni politiche dettate dalla pratica trasformista, delle debolezze di diversi parlamentari, ampiamente stimolate dalle risorse economiche messe a disposizione del leader della Sinistra dalla Banca romana. Così fanno pure Crispi (personalmente molto meno trasparente di Depretis) e Giovanni Giolitti (1842-1928), primo ministro dal 1892 al 1893 e poi, solo con brevi interruzioni, dal 1903 al 1914. Addirittura, fra 1893 e 1895 la pratica trasformista accompagnata dal malcostume della corruzione politica sfocia in uno scandalo di dimensioni nazionali. Nel 1892 Napoleone Colajanni (1847-1921), deputato di estrema sinistra, aveva infatti denunciato le condizioni fallimentari della Banca romana, nonché i suoi legami poco chiari con giornalisti, burocrati e Casa Savoia, scatenando il putiferio.

Secondo gli specialisti la data di nascita della democrazia italiana è peraltro proprio quel 1882 trasformista che ha sancito il trionfo della Sinistra storica. Sarà Antonio Salandra (1853-1931) nel 1914 a opporsi alla politica succeduta alla fine del governo della Destra.

 

5. Il "trasformismo"

Dalla pratica politica degli anni di governo della Sinistra storica, il "trasformismo" ha dunque assunto significato generale di critica e di censura dell'atteggiamento di "trasformazione" politica, di singoli deputati o d'interi gruppi di parlamentari, determinata da calcoli utilitaristici più che da vera revisione critica di posizioni ideologiche o ideali.

Il "trasformismo" depretisiano si contraddistingue per lo smantellamento pratico del "bipolarismo" Destra-Sinistra e della dinamica governo-opposizione che caratterizza l'Italia fra 1861 e 1876, per il clientelismo e per la fattuale corruzione del parlamento e della politica. Il "trasformismo" giolittiano, praticato grosso modo fra il 1903 e il 1913, s'incentra invece sul tentativo di costruire maggioranze stabili di governo, da un lato guardando verso la sinistra socialista attraverso la formulazione di veri e propri "patti di desistenza" (i socialisti appoggiano i governi Giolitti in diverse occasioni, senza mai però entrare a farne parte), dall'altro ancora (come già fatto da Depretis) verso singoli deputati dello schieramento liberale-democratico, in specie del Meridione. Una volta diffusosi dal parlamento alle amministrazioni locali, il "trasformismo" si configura dunque come il testimone politico che dal periodo compreso fra l'unificazione e lo scoppio della prima guerra mondiale passa all'Italia repubblicana del secondo dopoguerra di questo secolo.

"Da Depretis in poi - scrive Alfio Mastropaolo alla voce Trasformismo (nel testo l'autore usa l'abbreviazione "T."), contenuta nell'autorevole Dizionario di politica che Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino hanno diretto e pubblicato 1983 -, giacché i suoi metodi di governo verranno adottati anche dai successori, la parola "T." servirà ad indicare un nuovo tipo di prassi parlamentare consistente in un continuo mercanteggiamento di voti tra maggioranza e opposizione, nella corruzione elevata a risorsa politica fondamentale e determinante, nei tutt'altro che infrequenti passaggi di uomini politici da un settore all'altro del parlamento, da un partito all'altro. Più in generale nel "T." verrà individuato il sintomo di uno stato patologico di tutto il sistema parlamentare, la causa della sua inefficienza ed inefficacia come centro nevralgico del sistema politico, della sua incapacità a porre in essere schieramenti definiti e compatti, maggioranze stabili, opposizioni responsabili. Nel futuro, con l'estensione del suffragio e l'affermarsi dei grandi partiti di massa, lo stesso termine verrà adoperato per indicare i complessi giuochi di equilibrio, i mutamenti di opinione meno previsti, le collusioni in apparenza meno coerenti che ancora oggi, specie con la tendenza imposta ai partiti dalle regole della competizione elettorale, a stemperare la propria specificità e a trasformarsi in partiti "acchiappatutto" (Kirchheimer), così frequentemente ci capitano sotto gli occhi".

La questione del "trasformismo" vecchio e nuovo si mescola dunque evidentemente con quella della partitocrazia, nonché con quella della natura del parlamento e del legame che unisce rappresentanti e rappresentati. Quest'ultima, contesa in un dibattito mai completamente risolto fra "rappresentanza come delega" (tipica, per esempio, del mondo politico medioevale), "rappresentanza come rapporto fiduciario" (sostenuta, sempre per esempio, da Edmund Burke [1729-1797] in A Letter to John Farr and John Harris, Esqrs. Sheriffs of the City of Bristol on the Affairs of America, del 1777) e "rappresentanza come specchio", viene formulata (rispettivamente) o come semplice esecuzione delle istruzioni dei rappresentati senza alcuni autonomia da parte dei rappresentanti e secondo l'idea del "mandato imperativo"; o come azione del rappresentante secondo l'interesse dei rappresentati quale egli lo percepisce, secondo un'opera, afferma Burke, di ragione e giudizio al servizio del bene comune e non solo dei particolarismi; o, ancora, come concezione dell'organismo rappresentativo in termini di microcosmo che riproduce fedelmente le caratteristiche del corpo politico. Non esistendo - come la scienza politica dimostra oggettivamente al di là di ogni interpretazione ideologica di parte - un esempio perfetto di rappresentanza, forse un inizio di soluzione risiede nell'adozione di un modello rappresentativo in qualche modo misto e legato alle caratteristiche storiche, geografiche, culturali, linguistiche, religiose e sociali di un determinato paese. Ma, soprattutto, da una chiarezza culturale, dottrinale e morale di cui il limpido bipolarismo culturale, prima ancora che partitico, fra una Destra e una Sinistra fondate su concezioni dell'uomo e della società chiare in sé e nettamente distinte fra di loro è indicazione evidente. Risuonano allora più che mai attuali le parole - non di "bella politica", ma di politica vera in cui fra ordine morale e ordine sociale esiste una continuità fondante - affidate da Minghetti a una lettera indirizzata a Diomede Pantaleoni, datata Lucerna, 20 luglio 1832.

"Tu ti immagini - vergava il padre della Destra storica italiana - che io negozii col Depretis, o che sia pronto a passare nel campo dei progressisti. Mi duole questa tua supposizione. E mi duole che tu abbia prestato ascolto a quelle buffonate [...]. I miei principii sono sempre quelli del 1848 e non ho altro pregio che la coerenza delle idee [...]. Io sono quello che sono, la mia mira è un governo onesto serio e forte, ma con larghezza di leggi e di applicazioni. Che colpa ho io se alcuni disegni da me spiegati e proposti nel 1861 vengono fuori come un piatto infarcito del partito che ci governa".

 

Marco Respinti

 

[Comparso con il titolo Uomini e cose della vecchia Italia in

Charta minuta, anno II, n. 11, ottobre 1998 - intitolato Trasformismo -, pp. 51-60.

Al testo sono stati aggiunti alcuni dati]