Dietro le quinte del "Sexgate"

 

I guai di Clinton in mondovisione sarebbero solo una farsa boccaccesca se all’ombra del cosiddetto "Sexgate" non germogliassero le voglie nascoste dei neoilluministi. Sulla prima pagina del Corriere della Sera di lunedì 21 settembre, Ennio Caretto espone lucidamente — dal suo punto di vista — il teorema: i Repubblicani che si accaniscono contro il presidente statunitense "[...] hanno [...] rafforzato il dubbio che la politica americana sia una giungla, e che la Costituzione, nata oltre 200 anni fa, sia ormai da rifare". Un dubbio retorico che il corrispondente da Washington del più grande quotidiano italiano trasforma subito in ineluttabile certezza additando come "mezza verità" l’affermazione di Trent Lott, leader Repubblicano al Senato statunitense, secondo cui "la Repubblica non è in crisi, è in crisi Clinton". Per Caretto, infatti, sono tutte le istituzioni nordamericane, anzi — e il ragionamento assume forma di conclusione sillogistica — è "in ultima analisi la democrazia" a essere attraversata da profonda crisi.

Ma il preteso sillogismo è solo un sofisma. Che la democrazia sia in crisi non è una grande novità. Tale per definizione sin dai primi vagiti dell’umana avventura, essa ha visto profondersi da sempre grandi sforzi ermeneutici che però non sono ancora approdati a definizioni soddisfacenti e conclusive. "Tirata per la giacca" a destra e a sinistra, perennemente minacciata dall’involuzione e dalla decadenza, la democrazia affetta da intrinseca ambiguità concettuale non ha tratto granché giovamento neppure dallo sforzo di attuazione pratica messo tragicamente in atto a partire dal 1789 di Francia da chi ha preteso d’imporne al mondo il proprio particolare understanding ideologico spacciandolo per verità unica e assoluta: il tentativo di applicare forzatamente alla realtà sociale del genere umano (di suo gerarchica, cioè ordinata verticalmente) una concezione egualitaristica e livellatrice della democrazia, che a livello etico-metafisico si risolve in un continuo rimpiattino fra relativismo e nominalismo, è stata una costante altrettanto tragica dei due secoli e oltre che ci separano dalla pantomima della "presa della Bastiglia".

Che Democrazia e repubblica non siano sinonimi, però, i Padri degli Stati Uniti d’America — costituenti prima dei rivoluzionari di Francia e anche per questo ricettori di una lunga tradizione di esempi storici e di dottrine dello Stato classiche che altrove si è invece positivamente voluto ricusare — hanno mostrato di saperlo almeno fin dalla stesura degli articoli che Alexander Hamilton, James Madison e John Jay raccolsero ne Il federalista, firmandoli con lo pseudonimo collettivo "Publius". Che quella statunitense sia una repubblica, non una democrazia, lo hanno saputo anche tanti altri: da Benjamin Franklin — peraltro piuttosto filoilluminista e "progressista" — a Eric Voegelin, che lo ha scritto nelle proprie Riflessioni autobiografiche; ma soprattutto lo hanno saputo quegli stranieri che, fino a non moltissimo tempo fa, per ottenere la cittadinanza statunitense dovevano compilare un apposito modulo in cui, fra altro, rispondere esattamente alla domanda relativa alla forma di governo della nazione nordamericana. "Democrazia" era la risposta sbagliata.

Affermare dunque — come fa Caretto — che se Clinton è in crisi, allora lo è la democrazia per colpa del "perverso" meccanismo insito nelle istituzioni repubblicane del paese è un cortocircuito la cui unica funzione è quella di gettare fango sul sistema politico e sulla forma di governo statunitensi. Troppo malizioso sarebbe anche il solo lontanamente sospettare che la denigrazione del "modello americano" vergata da certi giornalisti di casa nostra sia in qualche modo da mettere in relazione al favore con cui esso viene sempre più — quantomeno idealmente — preso in considerazione negli ambienti politico-culturali del Centrodestra italiano, in cui si è parlato e si parla di elezioni primarie e di presidenzialismo. Scartando l’ipotesi di tanta volgare provincialità, non rimane che meditare sul fatto che la "terza via" (curioso: una volta la "terza via" era quella fascista, neofascista, criptofascista...) dell’ "Ulivo planetario" — ovvero la trasformazione della sinistra in una nuova "cosa" mondiale che coniughi tradizione socialista, progressismo liberale e modernismo cattolico secondo schemi che per associazione d’idee si è tentati di ricondurre a certi vaticini pronunciati da Altiero Spinelli in Pci, che fare? — deve per forza passare attraverso lo smantellamento persino delle più piccole vestigia del passato. Cioè non d’istituzioni politiche perfette semplicemente perché "di ieri", ma che, essendo appunto "di ieri" — ovvero precedenti l’ "alba radiosa" della Modernità sorta con la Rivoluzione di Francia —, risultano meno impregnate (fino a esserlo punto, almeno potenzialmente) d’ideologismi illuministico-giacobini. Non lo dice certo il sottoscritto, il che sarebbe ben poca cosa; lo afferma invece Voegelin nell’ultima pagina del suo importantissimo La nuova scienza politica (in inglese nel 1952, in italiano per la torinese Borla nel 1968 con ampia introduzione di Augusto Del Noce):

"Quando fu realizzato l’assetto del 1690, l’Inghilterra preservò la cultura istituzionale del parlamentarismo aristocratico come pure i costumi di una comunità cristiana, diventati da quel momento istituzioni nazionali. La rivoluzione americana, benché i suoi dibattiti fossero più influenzati dalla psicologia dell’illuminismo, ebbe tuttavia anch’essa la buona sorte di giungere a conclusione nel clima istituzionale e cristiano dell’ancien régime. Nella rivoluzione francese, invece, la spinta radicale dello gnosticismo fu così forte che spezzò per sempre la nazione in una metà laicista che si richiama alla rivoluzione e in un’altra metà conservatrice che ha tentato, e tenta, di salvare la tradizione cristiana. [...] Perciò la società occidentale, nel suo complesso, è una civiltà quanto mai stratificata, nella quale le democrazie americana e inglese rappresentano lo strato tradizionale più antico e più saldamente consolidato della civiltà stessa [...]. In una situazione di questo genere resta una favilla di speranza, perché le democrazie americana e inglese [...] più saldamente rappresentano nelle loro istituzioni la verità dell’anima [...]".

Scartando analogamente l’ipotesi che Caretto desideri anche solo indirettamente portare acqua al mulino del giro mentale del progressismo internazionale, rimane la constatazione di un’interessante somma di coincidenze. La battaglia contro la Costituzione federale, combattuta dalla sinistra statunitense mediante stravolgimento democraticistico dell’ "intento originario" dei Padri fondatori, è un classico del progressismo d’Oltreoceano.

Alberto Ronchey, sempre sul Corriere della Sera questa volta di venerdì 18 settembre — ed Ennio Caretto che lo cita qualche giorno appresso —, sembra conoscere bene la lezione voegeliniana, anche se per lui abominevoli ne sono i contenuti. In una "tirata" che se non avesse di mira istituzioni in cui, appunto secondo Voegelin, è rappresentata "la verità dell’anima" risulterebbe enigmaticamente troppo sopra le righe, l’autorevole commentatore conclude constatando orripilato: "[...] rimane pure il dato sconcertante che l’istituto dell’impeachment, o l’abdicazione in vista di quell’umiliante procedura, è un ibrido tra la deposizione settecentesca del monarca e il voto di sfiducia contro un governo parlamentare. Ossia, un mondo arcaico nel "mondo nuovo"". Glossando, Caretto afferma senza mezzi termini che in gioco non è "tanto la sorte di Clinton quanto quella del presidenzialismo americano", dal momento che "[...] il presidente americano è un monarca di fine Settecento, sia pure costituzionale ed elettivo, investito di poteri senza eguali nei sistemi politici moderni, inamovibile se non appunto con l’impeachment". E non è tanto l’impeachment a importare: per Caretto, "la Costituzione Usa non può più essere interpretata come un dogma e [...] il rapporto tra i poteri esecutivo, legislativo e giuridico va rivisto".

Tesi non nuova quella del modello monarchico del presidenzialismo statunitense (vedere per esempio alla voce Alexander Hamilton), non lo sono neppure quella dell’ "aristocratismo" delle istituzioni nordamericane (vedere, per esempio, The United States: An Aristocratic Nation Within a Democratic State, appendice al volume del 1993 di Plinio Corrêa de Oliveira Nobility and Analogous Traditional Elites in the Allocutions of Pius XII. A Theme Illuminating American Social History) né quella della "non dogmaticità" della Costituzione federale. Sostengono da sempre il contrario, invece — soprattutto dopo la Guerra Civile e specialmente in questo secolo —, quelle forze che mirano a snaturare l’identità istituzionale del paese (e quanto essa sottende) proponendo un modello costituzionale malleabile e adattabile a tutte le stagioni del progressismo ideologico. Per questo le forze conservatrici hanno sempre guardato alla Costituzione come a un bene da mantenere intatto perché preciso nei contenuti, nelle prescrizioni e nell’ispirazione ("un dogma", irride Caretto).

La battaglia culturale attorno alla Costituzione, all’ "intento originario" dei Padri fondatori e all’epoca del Founding è del resto uno dei dibattiti più ricorrenti e appassionanti di tutta la letteratura politica nordamericana, in specie quella contemporanea. In gioco vi è la natura politica, istituzionale, culturale e religiosa della nazione nordamericana; il posto che essa occupa nella storia della Cristianità occidentale; fors’anche qualche chiave di volta per comprendere adeguatamente (e di conseguenza agire all’interno delle sue coordinate) la dinamica che De Oliveira — sulla scorta del fior fiore del pensiero antirivoluzionario occidentale e seguendo il Magistero cattolico — descrive come "rivoluzione e contro-rivoluzione". La nazione nordamericana: "fondata" come la repubblica rivoluzionaria francese e tutti i suoi discendenti, o "non fondata" cioè cresciuta nella storia, eredità e prodotto — mai corsi e ricorsi identici a sé stessi, ma modificazioni anche assai significative in un quadro di riferimento dato — della scienza politica classica, della tradizione del diritto naturale e del senso comune dell’Occidente cristiano? I conservatori dicono la seconda.

Al Corriere della Sera, che ospita le smanie modernizzatrici di certa cultura italiana, pare rispondere l’ultimo numero di The Univeristy Bookman, il trimestrale fondato nel 1960 dallo storico delle idee Russell Kirk e da questi diretto fino alla morte avvenuta nel 1994. Dedicato appunto al Founding, l’editoriale del fascicolo afferma che la Costituzione nordamericana è un importante esempio di saggezza politica pratica. Non, dunque, un "vangelo laico" immaginato perfetto per ogni situazione storica come pretende esserlo il modello politico-giuridico illuministico. In questo modo, laddove il secondo fornisce solo teorizzazioni astratte e prive di contenuti reali che finiscono per non avere alcun contenuto normativo, per non servire in nessun luogo e per mutarsi in suggelli del relativismo, la prima, con tutta la sua storicità, veicola contenuti universalistici no ma perenni sì che, se certo necessitano di essere incarnati in istituzioni specifiche di paese in paese e di popolo in popolo, altrettanto certamente hanno saputo resistere all’usura del tempo, agli assalti delle ideologie sovvertitrici e al nominalismo. Non la perfezione, dunque: ma l’alternativa fra due modelli di cui uno è certamente malvagio. "In questo caso, come in tutti gli altri, l’alternativa all’inferno è il purgatorio": così Thomas Stearns Eliot chiude il primo capitolo de L’idea di una società cristiana. Dietro la Costituzione federale statunitense, insomma, esiste una visione del mondo radicata in un ethos non completamente moderno (e positivamente antimoderno, se all’espressione si dà contenuto filosofico), laddove il modello illuministico-giacobino adombra i grandi contenuti del nichilismo metafisico moderno. I conservatori americani la chiamano "costituzione non scritta", ovvero — spiega The University Bookman "le usanze, le convenzioni e i precetti morali e religiosi del popolo". A dar fastidio ai neoilluministi, dunque, è l’esistenza della carta d’identità di una nazione che, con tutti i suoi limiti anche grossi, mostra il riferimento certo a una determinata visione del mondo: una visione che, fondata sul concetto di verità oggettiva e sull’idea di diritto naturale derivatone, è a larghi tratti filosoficamente precedente — alternativa — al relativismo debolista moderno. Anche i guai di Clinton servono alla modernizzazione.

Marco Respinti

 

[Versione originale e completa

dell’articolo comparso con il medesimo titolo

in © Secolo d’Italia, anno XLVII, n. 235, dell'8-10-1998, p. 16.]