Il philosophe contro il diritto alla vita

 

Straordinario Emanuele Severino. Sabato 20 giugno 1998, sulla "Terza Pagina" del "Corrierone", il quotidiano "più amato dagli italiani", ci ammannisce un temino da vigilia di vacanze estive. Già il titolo è un pugno nello stomaco, pugno vero, da conato: Diritto all’aborto e bene dell’umanità. Svolgimento in un elzeviro a due colonne su tre quarti di pagina misurata per il lungo: ovvero pistolotto già udito le mille volte in cui, per giustificare i comodi propri, si scomoda la sofistica, si affastellano alla bell’e meglio i clipping — i ritagli di giornale — e le fotocopie d’archivio (tanto è sempre la stessa storia: basta agitare bene prima dell’uso, mescolare, aggiungere spezie fino a cottura) e si lascia libero di galoppare quel cavallo irrefrenabile del quale già l’auriga di Platone aveva difficoltà a governare le mattane.

Lasciamo perdere la macedonia dell’insigne cattedratico che mescola parole in libertà anarchica e ragionamenti a dir poco tirati per i capelli, scomodando il bene comune, la pena di morte, la "guerra giusta" e l’aborto al fine di predicare alla Chiesa un proprio immorale fervorino. Lasciamo stare la confusione che il filosofo dimostra in tema di diritti della persona (espressione della natura normativa inviolabile e data) e bene comune. Tralasciamo la sua assurda definizione di "omicidio" e la sua assoluta indifferenza fra colpevolezza e innocenza. Mettiamo da parte tutte queste cose non in quanto irrilevanti, ma solo perché lo spazio è poco e per sviluppare un pensiero che risponda adeguatamente al filosofo-opinionista, ripercorrendone le tesi poste nell’articolo a guisa di sommario, ci vorrebbe ben altro spazio di quello concessomi. Né la Chiesa, che ha già più e più volte argomentato sapidamente su questa e analoghe tematiche, periodicamente rilanciate più o meno ad arte da vestali tutte particolari che alla bisogna riattizzano il fuoco mai spento della polemica distruttiva e velenosa, necessita della povera difesa del sottoscritto.

Mi prendo solo la briga di sottolineare, con l’evidenziatore colorato, un passaggio che è ratio di questo e analoghi interventi "autorevoli". Scrive Emanuele Severino sul Corriere della Sera che "[...] se il "bene comune" esige che ogni individuo abbia diritto alla vita, in certi casi l’aborto può configurarsi come legittima difesa della donna contro una vita estranea e non voluta che le piomba addosso e le si vuole abbarbicare e unire per sempre e soffocarla in modo tanto più tragico quanto più innocente è la vita che chiede di venire alla luce" (l’enfasi è di Severino). Quest’aberrazione del pensiero, questo ragionamento grondante sangue è il vertice del rovesciamento di ogni logica e di ogni buon senso, perpetrato conoscendo ma invertendo il bene e il male: la vita del nascituro riconosciuta come innocente eppure tranquillamente sacrificata sull’altare della sofistica ideocratica come un alieno che attacca. "Una vita estranea e non voluta che le piomba addosso e le si vuole abbarbicare e unire per sempre e soffocarla": ma non c’è nessun che si strappi le vesti davanti a queste ignominiose parole che riecheggiano il GuLag, Auschwitz, Phnom Penh e il razzismo più becero che l’uomo abbia mai saputo partorire? Sembra di no; queste cose sul "Corrierone" si posso scrivere impunemente: l’indignata condanna della mentalità distorta che sta alla base del razzismo la si riserva ad altri casi, quelli che comportano una bella medaglia sul petto, le luci della TV e l’approvazione della "ggente".

Ma nel pezzo di Severino c’è altro: il bandolo della matassa, il cardine del ragionamento, il filosofema che gli permette di vergare allucinazioni postmoderne come quelle qui sopra riportate. "Il concetto stesso di "bene comune" — spiega poco oltre il sofista — è antinomico. E alla fine non si dovrà dire che antinomico è il concetto stesso di "bene" tout court?" Ecco la quadratura del cerchio: dall’inversione del bene e del male, che ne chiede comunque il riconoscimento della natura e dell’esistenza, al dubbio sistematico sulla loro realtà.

Severino decreta il supremo trionfo dell’ideologia in un mondo cosiddetto postideologico. Poi va oltre e racconta che tutto è sogno, tutto è dubbio, tutto è relativo. Non esiste oggettività, realtà, né sua descrizione forte. Tutto è debolismo: definizione debole del reale che consente una morale e una politica assolutamente relative e relativiste, dove tutto è permesso soprattutto al più forte. Altro che prediche alla Chiesa. I "maestri del sospetto" sono legione.

Si sbaglia di grosso chi ritiene il dibattito postmoderno fra "pensiero forte" e "pensiero debole" un passatempo da intellettuali persi nell’empireo di una filosofia meramente iperuranica. Emanuele Severino lo afferma a chiare lettere sul primo quotidiano italiano: lo stupro della realtà (dunque della metafisica, della morale e del pensiero) prima o poi si colora sempre di sangue. Necessariamente. In questo caso, sangue di bambini.

Marco Respinti

mimir@iol.it

 

[Articolo pubblicato con il titolo La vita? Per il "Corriere" è un valore relativo,

in © Secolo d’Italia, anno XLVII, n. 144, del 21-6-1998, pp. 1 e 14.

Sono state apportate alcune variazioni]

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